Zeus!
Zeus!
(CD, Venus)
rock
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All’età di circa dieci anni, un po’ meno per la verità, mi capitava spesso di andare a prendere uno dei tanti dischi della collezione di mia sorella, lei è un po’ più grande di me, e di metterlo sul piatto per ascoltarlo in cuffia. Ero attrato dalla copertina del disco, con colori molto forti, rosa e celeste, con un faccione che urlava in primissimo piano. All’interno dell’album lo stesso faccione sorride in maniera molto più rassicurante.
Oltre che dalla copertina, ero anche completamente affascinato dai suoni che uscivano dai quei solchi, soprattutto il primo brano, e all’epoca non sapevo molto bene di cosa parlasse, ma non era importante. Dopo un’inizio molto potente e molto regolare ed una voce distorta che parlava di un uomo schizoide, iniziava una parte centrale, strumentale, un crescendo che mi lasciava ogni volta senza fiato. Nella mia immaginazione, quei suoni sembravano la colonna sonora di un film dove potevo vedere macchine della polizia che inseguivano dei pericolosi criminali tra le vie di una metropoli americana. Era estremamente eccitante, il brano si chiudeva con un’apoteosi di suoni distorti per smettere improvvisamente e ripartire con il dolcissimo flauto del secondo brano. Ed io rimanevo stremato!
Più di trent’anni dopo ho tra le mani il disco degli Zeus!, manifestazione sonora di Luca Gavina e Paolo Mongardi, il primo al basso dei Calibro 35, il secondo un tempo “scuoti-pelli” dei Jennifer Gentle. Loro sono il nucleo, ma una serie di amici, o per meglio dire complici, li aiutano a riempire alcuni spazi vuoti: Andrea Mosconi, Giulio Favero, Valerio Canè e non me ne vogliano gli altri, il genio di Enrico Gabrielli, completano il quadro comandi che ha realizzato il disco.
Fatto di cosa? Fatto di nove tracce che hanno la stessa violenza, bellezza e perfezione nei tempi della parte strumentale della canzone che ascoltavo da piccolo in cuffia. Un disco che ascolti a ripetizione, che non ti stanchi mai di scoprire, quasi non ti accorgi che si passa da un brano all’altro, forse non vuoi neanche che ciò avvenga. Impossibile provare a tenere il tempo, i suoni sono ipnotici, quasi dei mantra ritmici. Il genere? quello che volete voi, non ha importanza, se fosse per me, se avessi un negozio di dischi, lo metterei nel genere “bello”, punto.
Tutti dovrebbero ascoltare questo disco, non per scopiazzarlo, ma per capire che se si vuole fare qualcosa di bello, primo, che è possibile, secondo, che c’è bisogno di passione, tecnica e di violenza controllata. Soprattutto se non sei un poeta. Un disco che non bluffa, che non cerca di sedurre con sonorità ammiccanti, o ti piace o non ti piace. Unica piccolissima, minuscola nota stonata, ogni tanto gli urlacci, oops scusate, il cantato (?), che, per quanto mi riguarda provoca più disturbo che piacere e che contribuisce pochissimo musicalmente al disco, in ogni caso, sto parlando di pochisimi secondi nella totalità del disco. Assolutamente perdonati. La musica già da sola ha la capacità di far crescere una tensione devastante. L’urlo liberatorio dovremmo farlo noi, non loro.
Nota. Per quei pochissimi che non l’avessero capito, il disco del quale parlo all’inizio è In the Court of the Crimson King dei King Crimson (1969) e le canzoni citate sono 21st Century Schizoid Man e I Talk to the Wind. Sono sicuro che l’avevate capito tutti. Spero.
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