Zanne Festival
17 luglio 2015
Catania, Parco Gioeni
Four Tet, Luke Abbott, Hookworms, Peter Kernel, Camp Claude
live report
_______________
È il mio terzo giorno di permanenza a Catania, per lo Zanne Festival, e già mi sento come a casa in questa città. Mentre faccio colazione un ragazzo seduto accanto a me racconta di come in televisione abbiano preannunciato un picco nell’ondata di caldo di questi giorni. Parla di temperature che dovrebbero oscillare tra i 35 ed i 40 gradi centigradi. Io mi affaccio sul balconcino della sala ed effettivamente fa un po’ più caldo di ieri, ma Catania ormai è mia amica e so che se faccio attenzione e presto qualche accortezza anche oggi sarà una bella giornata.
Passo tutta la giornata in centro. Sperimento sapori e gusti nuovi e sembra tutto riflettersi sul modo di vedere la città. L’arancina al pistacchio è cremosa e croccante allo stesso tempo. La cipollina è un fagottino di pasta lievitata, ma non la solita pasta della pizza a cui siamo abituati: è un impasto sensibilmente più soffice e spugnoso nella cui preparazione i catanesi sono maestri indiscussi. Lo usano per una lunga serie di ricette dai nomi più strani: cartocciata, diavola, sfogliata, bomba e via discorrendo. Anche i ripieni sono fantasiosi e vanno dal classico prosciutto e formaggio all’aggiunta di pomodoro, pancetta, uova, funghi, melanzane ed altro ancora. La cipollina, ad esempio, dovrebbe tecnicamente essere (e spero di non sbagliare affermandolo, perché magari ho capito male) una cartocciata con in più la cipolla stufata. Quello che conta, ad ogni modo, è che sia deliziosa.
Il Liotro nero, con l’obelisco sulla schiena, sorride sornione a turisti e fotografi e non nega la benedizione ad una coppia di novelli sposi in posa sui gradini del piedistallo su cui è seduto. Attraverso Villa Bellini, nel pomeriggio inoltrato, con degli amici che mi portano a mangiare una granita rigenerante. Mi consigliano una mandorla macchiata con gelsi ed è la fine del mondo. Se pensate che la granita sia il ghiaccio tritato con lo sciroppo sopra siete completamente fuori strada. Qui la granita è una crema, un po’ meno densa del gelato artigianale al quale sono abituato, che quando si unisce alla fragranza della brioche calda dona momenti di gioia pura.
Torno al Parco Gioeni in tempo per l’inizio dei concerti. Anche stasera gli organizzatori dello Zanne Festival decidono di mandare sul palco la prima band molto presto. Non sono neanche le 20:30 che Camp Claude prende già possesso del front stage. Il trio francese capitanato da una Diane Sagnier, che si presenta con un mini toppino bianco sotto ad una salopette corta e dei sandali bianchi con le zeppe, patisce da principio lo stesso destino infausto subito dagli Ultimate Painting la sera precedente. Oggi è sabato e tanta gente starà ancora facendo l’aperitivo immagino. Fatto sta che da principio c’è il solito centinaio di persone o poco più a godersi le prime note. Ma Diane non si fa intimidire come è successo la sera prima a gli inglesi. E’ sicura della presa della sua proposta musicale e tenta anche di sfruttare un poco di fascino con l’arma della sua femminilità. Per darvi un’idea del loro suono potrei dirvi di immaginare una delle tante songwriters dalla vena alt-folk, che di questi tempi piacciono tanto a gli ultimi hipster rimasti in giro per il mondo, e tentare di declinare quella vena cantautorale in chiave elettronica molto minimal e basica. Il risultato è un velo setoso e mai invadente, buono per una serata soft, quasi da lounge club alternativo.
A dispetto dell’orario e della musica non proprio accattivante, i Camp Claude riescono nell’impresa di raccogliere pubblico e coinvolgerlo. Gli organizzatori li ringraziano fornendo al pubblico decine di palloncini colorati e lanciandone in aria un centinaio, creando così una coreografica che suggerisce, per i francesi, una chiave quasi dream pop. Una vittoria, la loro, che è forte anche di un paio di singoli che hanno avuto una discreta distribuzione. Il brano più famoso, nonché il più riuscito in assoluto di tutta la sua proposta, è Trap: un beat (finalmente) pieno e denso, downtempo, con un basso ben presente ed una melodia malinconica. Quando lo presentano come “un brano che forse qualcuno di voi ha già sentito”, dal pubblico qualcuno urla il titolo giusto ed il trio composto da voce, chitarra elettrica ed elettronica si lancia sorrisi di gioia per il loro piccolo momento di notorietà. Anche loro sanno che questo è il brano di punta di tutto il set e lo allungano il più possibile per permettere al pubblico, rinfoltito, di cantare a lungo il ritornello.
I Peter Kernel vengono dalla Svizzera italiana, anche se la bassista è canadese ed il batterista messicano. Sono un power-trio che coniuga il garage anni ’90 all’indie della medesima decade. Lo stile vocale della bionda Barbara Lenhoff, unitamente allo strumento che imbraccia, non può non richiamare alla mente Kim Gordon ed i Sonic Youth, tanto quanto le prime produzioni dei Blonde Redhead. Alcune sonorità, soprattutto quelle più grintose di certe cavalcate sonore che propongono, ricordano le due ensemble newyorkesi, ma l’ingrediente vincente della ricetta è quel tocco indie-core che ricorda addirittura i Codeine suonati a 2X di velocità. Le virate shoegaze e post-punk coinvolgono un pubblico piacevolmente sorpreso che, quando li sente parlare in italiano, quasi non riesce a credere di esserseli persi per strada senza conoscerli prima. E’ così al punto che qualcuno dalla prima fila gli chiede esplicitamente “ma di dove siete?” e loro rispondono divertiti. Sono simpatici e divertenti anche nei piccoli sketch che intavolano in modo del tutto estemporaneo i due microfonati: coppia nella vita e coppia sul palco, che battibeccano con ironia e sagacia divertendo gli astanti. La loro energia ed il suono mai banale, nonostante il genere non proprio in auge di questi tempi, fa breccia tra le qualche centinaio di persone che nel frattempo si sono gustate i loro 45 minuti di suono.
Gli Hookworms vengono da Leeds, in Inghilterra, e sono la proposta migliore della serata. Sul palco sono in cinque, il magrissimo batterista, basso ed elettronica, un chitarrista col barbone lungo fino allo sterno ed il cappellino (parlavamo di hipster poco prima, vero?), l’altro chitarrista in shorts e poi lui: un cantante/tastierista che maneggia diavolerie elettroniche; un personaggio dall’aspetto più che imbolsito che si fa largo sul palco con un paio di occhiali neri da nerd e che sembra avere (mangiato?!?) tutto fuorché il physique du role del frontman. Immaginate un Frank Black (Francis) dei più pingui, con un capello a caschetto a metà orecchie. Il primo brano è talmente devastante che neppure mi accorgo della serie di schiaffi in faccia ricevuti. Avete presente quella sensazione di intontimento di quando ricevete una scarica di cazzotti velocissima a tradimento? Alla fine della loro set-list la sensazione non sarà di una scarica velocissima di cazzotti, piuttosto a molti sembrerà di aver scontrato per caso Ken Shiro oppure uno dei Cavalieri dello Zodiaco, tipo ricevere un “Fulmine Di Pegasus” da un cavaliere particolarmente incazzato.
Al secondo brano il batterista esce da dietro ai tamburi, salta sui grandi subwoofer e distribuisce tappi per le orecchie alle prime file. MJ (il cantante) si toglie gli occhiali. Dopo il terzo brano inizio a realizzare cosa sta succedendo. È come se gli ZZ Top avessero sparato le chitarre a mille, eliminato tutti gli assoli, alzato i reverberi dei loro ampli. In più c’è MJ che ha una voce nervosa ed acuta che nemmeno Maria Carrey, effettata fino all’inverosimile, che lancia sferragliate di suoni ed effetti dalle tastiere ed altre diavolerie e si dimena come un forsennato. E’ space-garage, è psycho-noise, è rock’n’roll, è punk. Pettinano le prime file ed anche qualcuno più in fondo con muri di suono ed ondate di energia. Se solo un briciolo di questa grinta ce l’avesse avuta anche Spiritualized la sera precedente…chissà che concerto sarebbe stato!
Il palco viene ripulito da ogni strumentazione acustica e ne centro viene montato un grande desk. Tutto intorno vengono piazzati dei neon verticali colorati. Due figuri si avvicinano per dare gli ultimi aggiustamenti ai settaggi ed alla strumentazione: sono Luke Abbott e Kieran Hebden (a.k.a. Four Tet). La cosa assurda è che nessuno sembra riconoscerli e non me ne capacito ( e penso tra me e me “ma allora, spiegatemi, che ci siete venuti a fare?”). L’idea che possano fare qualcosa insieme, essendo entrambi lì, uno accanto all’altro, si spegne presto nella mia testa. Tornano dietro le quinte e dopo pochi istanti Abbott esce da solo.
Dapprima il suono che genera è più ricercato, sfasato. Si muove su linee di tempo differenti e beat quasi asincroni. Stratifica suoni vintage cercando di accumulare volume. Le influenze kraut però sono sommesse e di lì a poco il tutto prende una piega più pop. Melodie più orecchiabili, suoni puliti, cassa e basso presenti. Fa ballare le poche migliaia di persone che hanno invaso l’arena con gusto e ricercatezza. Passa poi ad arrangiamenti più minimal e più eleganti, senza lesinare sui suoni ad 8bit. Questa parte centrale dura a sufficienza per far divertire il pubblico che visto tutto in controluce ondeggia la testa e batte il piede piegando le gambe. Una volta accontentati tutti, Luke Abbott si concede un set finale più sperimentale, dove ora si sentono i Kraftwerk ed i Neu! ed anche un po’ di Tangerine Dream. I suoni diventano analogici, i beat non sono più patinati e rotondi, ma diventano scoppiettanti e secchi. Disegna strato su strato con suoni e pennellate di transistor ed oscillatori. Poi fa scivolare via i layer uno alla volta, lentamente, fino alla fine della performance. Niente male, anche se le mie orecchie avrebbero preferito ascoltare di più della testa e della coda del set proposto sacrificando i gusti del pubblico.
Four Tet inizia dove Abbott ha finito: con suoni sghembi e stratificati. Ci sono anche qui layer asincroni che si scontrano in un clash of sounds che fa ben sperare per il prosieguo della serata. Poi l’ex ragazzo prodigio, inventore della cosiddetta folktronica, imposta il metronomo del suo PC sui 120bpm, mette su la cassa in quattro e non la toglie più fino alla fine. Qualche sprazzo di atmosfera indiana che richiama alle sue origini, poi qualche schizzo di ritmi caraibici, ma solo per un attimo, così come per qualche sentore di spiaggia hawaiana. Il resto è uno spettacolo fatto di variazioni su tema, interrotto solo da un paio di problemi tecnici che lo costringono a fermarsi. Certo, la gente ora non solo muove la testa e batte il piede: ora balla e si diverte come fossero in un club di Londra. Ma alle mie orecchie, però, è come se stessi guardando un workshop su come utilizzare Ableton Live oppure un video tutorial su YouTube. La house che propone Four Tet è fatta di saliscendi e contrapposizioni pieno-vuoto che tradiscono un calo di ispirazione considerevole rispetto al passato. Four Tet sembra diventato un brand da portare avanti ad ogni costo e sponsorizzare il più possibile, per raggiungere le masse ed il loro consenso, i loro gusti, i loro portafogli. Mentre Luke Abbott lasciava traspirare una evidente passione ed intravedere il cuore in ciò che suona, Kieran Hebden è asettico, piatto, monotono. Muovo il bacino per 10 minuti, poi mi annoio e vado a bere una birra mentre tutti sembrano divertirsi.
Sul finale ripropone atmosfere folk e prova a riproporre un poco di sperimentazione, ma ormai è troppo tardi, non c’è più il tempo e non avrebbe neppure più senso indugiare su costruzioni e mattoni melodici da impilare. Il suono poco a poco si svuota, il volume si abbassa, le luci si fanno via via più fioche. Arriva il silenzio. Four Tet, con la sua chioma riccioluta e la sua maglietta verde mela, saluta agitando la mano in aria e lascia il palco. Ora la serata prosegue fino alle 3:00 del mattino con un silent dancefloor fatto di cuffie bluetooth e varie selezioni di musica da ascoltare e ballare nel più totale isolamento acustico. Isolamento che per me risulta essere, di conseguenza, anche fisico. Da qualche tempo questa abitudine va molto di moda. Ballare la musica che ti piace, mentre accanto a te ballano su ritmi completamente diversi, in completo isolamento. Io non ne capisco il senso; se non c’è condivisione tanto vale farlo da soli a casa propria oppure optare per un bar all’aperto, che poi è quello che scelgo di fare. Ma sono io che ho gusti difficili e sono probabilmente troppo intransigente e rigido riguardo a certe cose. O forse sto solo diventando vecchio.
Col bicchiere in mano pregusto già la prossima ed ultima serata, con Timber Timbre e, soprattutto, Godspeed You! Black Emperor. Non sto nella pelle!
Gli ultimi articoli di Antonio Serra
- Intervista ai Mokadelic - January 13th, 2017
- Gran Rivera: Pensavo Meglio / Pensavo Peggio - December 12th, 2016
- Intervista a Gaben - December 3rd, 2016
- Before Bacon Burns: La Musica Elettronica è il Futuro - November 21st, 2016
- Joseph Parsons: The Field The Forest - October 19th, 2016