Zanne Festival
17 luglio 2015
Catania, Parco Gioeni
Ultimate Painting, The Dead Brothers, A Place To Bury Strangers, Spiritualized
live report
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La seconda giornata dello Zanne Festival inizia, per me, in una Catania assolata ma ventilata. Sul terrazzino della mia stanza già alle 8:00 del mattino si percepiscono i prodromi di una calda giornata d’estate siciliana, come quelle che si vedono nei vecchi film. Brioche e granita di mandorla (con un goccio di caffè sopra, come mi consigliano di fare) sono un toccasana oltre che una delizia.
Rinfrescato nel corpo e rinfrancato nello spirito, dopo qualche ora passata a preparare un po’ di materiale si fa troppo tardi per un bagno al mare. Decido quindi di dare un’occhiata alle attività mattutine programmate dallo staff del festival.
Il Parco Gioeni è costellato di piazzette ed angoli semi nascosti, che si raggiungono attraverso sentieri che a volte si mimetizzano talmente bene che se non fosse per la segnaletica non si noterebbero neppure.
In uno di questi spazi, sotto a due grandi alberi, c’è un uomo vestito con una tunica bianca, in piedi davanti ad un gruppetto di persone. Camminano su una grande stuoia e fanno movimenti e gesti che, suppongo, portino a prendere consapevolezza del proprio corpo e della propria fisicità. Un cartello poco lontano mi informa che si tratta del corso di Tai-Chi. Accanto a questo c’è un altro cartello con una freccia che indica il “Letto sonoro”.
Sono incuriosito e mi incammino fino ad un piccolo tendone bianco davanti al quale c’è un ragazzo che mi parla a bassa voce. Mi spiega di un maestro indiano che ti fa stendere su un letto fatto di legno sotto al quale vengono tese delle corde. Le vibrazioni di queste corde insieme a quelle di una serie di campane che lui stesso percuote, si trasmettono al corpo attraverso le tavole di legno, facendo vibrare carne e spirito all’unisono per una decina di minuti.
Sembra molto interessante ma c’è da aspettare per provarlo ed io preferisco esplorare ancora un po’. Mi dirigo in direzione del corso di chitarra e trovo dei giovanissimi musicisti che ascoltano gli affascinanti racconti di Agostino Tilotta, chitarrista degli Uzeda. Sta facendo un excursus storico sull’evoluzione degli stili chitarristici, o almeno questo mi pare di capire. Sono tutti in religioso silenzio e non voglio disturbare, perciò mi fermo poco. Di attività ce ne sono davvero tantissime disseminate per tutto il parco, dall’hula hoop al laboratorio pittorico, dagli spettacoli con i pupazzi ai racconti di fiabe, anche workshop di danze orientali e laboratori di percussioni.
Ad una certa ora lo stomaco brontola e decido di sfidare il caldo, prendere l’autobus e scendere in centro a mangiare qualcosa. Nel tragitto dal parco alla fermata incontro i musicisti che accompagnano gli Spiritualized: stanno caricando gli strumenti in un mini-van. Intravedo per strada anche gli A Place To Bury Strangers e più tardi, davanti al Giardino Bellini incontro il batterista dei Balthazar. Tutti si godono Catania. Lo faccio anche io ed è una gioia per gli occhi e per il palato, quindi mi attardo per le stradine del centro fino a sera.
Tornato al Parco Gioeni ed è evidente il tono completamente differente della serata. I Franz Ferdinand avevano attratto una grande quantità di fan da tutto il centro-sud Italia, mentre i nomi di stasera (Ultimate Painting, The Dead Brothers, A Place To Bury Strangers, Spiritualized) sono meno altisonanti, al punto che quasi tutti (a parte gli Spiritualized) passeggiano per l’area bazar e chiacchierano un po’ con chiunque.
Il concerto inizia con circa un’ora di anticipo e questa scelta penalizza tantissimo gli apripista: Ultimate Painting. Ad ascoltarli c’è un centinaio di persone o poco più ed il cielo è ancora azzurro. Le loro sonorità molto riflessive accusano il colpo ed il pubblico reagisce con freddezza.
La band è un progetto messo su da Jack Cooper, frontman dei Mazes, e James Hoare dei Veronica Falls. Uno di Manchester, l’altro di Londra. Insieme lavorano a questo progetto che unisce il loro smisurato amore per la psichedelia inglese degli anni ’60 e per i Velvet Underground. Ma i brani non hanno molto appeal e sembrano un po’ troppo derivativi, loro forse ci rimangono male per la poca gente e non si sforzano tantissimo di coinvolgere gli astanti. Il risultato è una performance che dura circa mezz’ora e che non rende forse del tutto giustizia alla band.
Tutta altra storia per gli elvetici The Dead Brothers, che si presentano subito dopo sul palco con indosso delle maschere da dottori della peste, palandrane, cappelli, e giacche nere in stile ottocentesco. Iniziano in sordina, con il pubblico ammutolito, eseguendo una lenta marcia in minore. Giocano la carta della teatralità e portano a casa il risultato. I brani a seguire sono tutti ritmatissimi, in un turbine di patchanka, folk, punk-rock e banda di paese. Armati di mandola, chitarre elettriche, banjo, basso tuba, violino, mandolino e grancassa, smuovono la platea ed ammassano un migliaio di persone che sembrano sbucare dal nulla. È un danzare e saltare continuo che loro alimentano con doti attoriali notevoli e grande senso drammaturgico. Quando il un paio di brani il chitarrista mette in bocca lo scacciapensieri si generano ovazioni, in barba a tutti i cliché. Vanno avanti per poco meno di un’ora e poi staccano tutti gli strumenti e scendono tra il pubblico a completare lo spettacolo prima in una processione festosa, poi in cerchio tra la gente che canta in coro ritornelli orecchiabili. Provano a finire ma intorno a loro ormai c’è la folla che non ne vuole sapere, allora continuano per un’altra decina di minuti fino a che rimangono senza voce, soprattutto il cantante. È quel che si definisce un bagno di folla. Un successo.
Il teatro messo su dai The Dead Brothers in mezzo al pubblico dà modo ai tecnici di lavorare al cambio palco. Quasi non c’è soluzione di continuità tra l’ultimo colpo di grancassa ed il feedback generato dagli amplificatori de A Place To Bury Strangers. Questi ultimi ci regalano un set al fulmicotone. Sembrano aver abbandonato completamente i loro aggeggi elettronici, forti dell’apporto del nuovo batterista, e si lanciano in un noise-core con un impatto da paura. Si spendono tantissimo sul palcoscenico e tutto il pubblico ammassato dalla band che li ha preceduti ora, oltre ad essere aumentato, si dimena insieme al trio statunitense. Feedback, distorsioni, rumorismi e poi salti, contorsioni, strumenti maltrattati. Non mancano i singoli, salutati dal manipolo di fan venuti apposta per loro con ripetute ovazioni.
La performance viene ricamata da luci stroboscopiche accecanti ed effetti luminosi di varia natura che stordiscono quasi quanto il loro muro di suono. Arriva il finale ed Oliver Ackermann inizia a spostare casse ed amplificatori. Cerca di agglomerare quanto più suono possibile. Avvicina i microfoni della voce a gli ampli. Ora ci sono quattro amplificatori accesi uno accanto all’altro ed il suono diventa sempre più grosso. Ackermann lancia la sua Fender Jaguar in aria e la lascia franare al suolo in un mare di feedback. Poi la riprende tra le urla isteriche del pubblico e tenta di frantumarla contro le assi di legno del palcoscenico. Il pubblico è in delirio.
Robi Gonzales lascia la batteria mentre Oliver continua a maltrattare la sei corde, salta giù dal palco e scavalca le transenne. Si perde per un po’ tra il pubblico e dopo qualche secondo lo segue anche Dion Lunadon che lascia il suo basso a terra a generare rumore. È a quel punto che capiamo che sta succedendo qualcosa. La gente li segue fino ad una zona posta proprio di fronte al palco, sul lato opposto dell’arena. Lì hanno lasciato le loro drum-machine ed il loro marchingegni. Lì collegano jack e microfoni ed iniziano a generare ritmi e suoni sintetici. Li raggiunge anche Ackermann con la chitarra martoriata. Bagno di folla anche per loro che regalano altri 20 minuti di loop e suoni ad 8bit. Una performance live che i presenti ricorderanno a lungo.
Il front-stage si colora di blu mentre tutti scendiamo di nuovo nell’arena. Un loop di organo introduce Spiritualized. I musicisti entrano uno per volta accolti da saluti flebili. Anche quando entra lui, Jason Pierce, fondatore degli storici Spaceman 3, in pochi lo riconoscono dietro ai suoi occhiali scuri. Il suo microfono è defilato, di fianco alle due chitarre ed all’amplificatore e lui si posiziona dando il fianco sinistro al pubblico, quasi di spalle. Prova a chiedere un applauso battendo le mani in aria, ma il risultato è modesto.
I più aspettano che arrivi qualcun’altro e si piazzi in mezzo a tutto quello spazio vuoto nel centro del palco. Purtroppo per loro nessuno arriverà e se ne accorgono alla prima frase cantata da Pierce, che per tutto il concerto non degnerà di una parola il pubblico se non per un “thank you” istituzionale alla fine del primo set ed al rientro per l’unico brano concesso nel bis. Lo space-rock pervade il Parco Gioeni ed i visual proiettati sul fondale bianco creano una atmosfera psichedelica.
La psichedelia si trasforma spesso in trance quando incontra le lunghe suite strumentali e reiterate che fanno spesso da coda o da interludio nei brani proposti. Lunghe variazioni su note di bordone che in certi casi risultano forse troppo calcate, troppo forzate e prolisse. Gli spettatori però per lo più apprezzano e seguono gli intarsi sonori che in molti casi virano verso composizioni assimilabili più al genere americana che non all’alt-rock. Le due coriste sottolineano i passaggi più bluesy e sono convinto che tantissimi hanno pensato che J Spaceman fosse del Tennessee piuttosto che britannico.
Il set di Spiritualized è molto lungo, o forse sono i mantra sonori a farlo sembrare tale, ma devo dire ad onor del vero che non ci sono stati particolari picchi nel corso della performance. Sarà colpa, magari, del fatto che i brani sono stati tutti legati tra loro senza pause sonore, in un fiume di musica. L’unico brano concesso nel bis dura 15 minuti, poi qualcuno prova ancora a chiedere di più, ma tanta gente ormai si è già riversata verso le scale che portano all’uscita. Forse la tentazione di uscire di nuovo sul palco li sfiora per un po’, ma dura cinque minuti, poi le luci si spengono ed i tecnici iniziano a smontare tutto.
La differenza di pubblico rispetto alla sera precedente si vede anche dai cestini della spazzatura, che non sono quelli traboccanti sopraffatti dalle 5000 persone venute per gli F.F.S. e quando la gente sfolla tutto sembra pulito e sgombro. Tuttavia la serata è risultata riuscitissima. Nota di merito ai The Dead Brothers per la presenza scenica e cinque stelle a gli A Place To Bury Strangers per la performance da urlo. Ora tutti in attesa che il parco venga trasformato in un grande club per la terza serata affidata a Four Tet.
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