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Wojtek: recensione di Petricore

Torna a ribollire il magma groove-sonico dei padovani Wojtek nel nuovo album Petricore, un mix di sludge e post-hardcore mitigato da elementi dark ambient.

Wojtek

Petricore

(Flames Don’t Judge, Fresh Outbreak Records, The Fucking Clinica, Dio Drone, Shove Records, Violence In The Veins)

sludge metal, dark-wave, post hardcore, groove metal, noise metal

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A distanza di due anni dal precedente album Does This Dream Slow Down, Until It Stops?, e dopo un’intensa attività live sia in Italia che all’estero accanto a realtà consolidate come Eyehatehod, Messa e Ufomammut, i Wojtek tornano sulle scene del circuito underground con un nuovo sforzo discografico (quarto in carriera) intitolato Petricore, edito per una lunga cordata di etichette indipendenti (Flames Don’t Judge, Fresh Outbreak Records, The Fucking Clinica, Dio Drone, Shove Records e Violence In The Veins).

Quello del quintetto padovano – composto da Simone Carraro (basso e cori), Francesco Forin (batteria), Mattia Zambon (voce), Morgan Zambon (chitarra e cori) e Riccardo Zulato (chitarra e cori) – è un sogno che, nonostante la pandemia e alcuni cambi di line-up, non si è mai fermato: un sogno proveniente dalle lande più desolate dei boschi veneti, che continua a viaggiare “on the road”, sulle impervie strade del presente, mantenendo intatta la rotta evocativa di una traiettoria stilistica groove-sonica in equilibrio sinergico tra sludge e post-hardcore, tra filosofia DIY e complessità eterogenee.

Se nell’etimologia polacca il termine Wojtek significa “colui che ama la guerra”, il termine Petricore, come riportato nel comunicato stampa e in qualità di filo conduttore concettuale dell’intera release, indica quella particolare sensazione olfattiva che si percepisce al battere della pioggia su una terra da tempo asciutta. L’odore che si sente durante e dopo la pioggia che interrompe un periodo di siccità.

Verosimilmente, i Wojtek fanno riferimento a una siccità di natura etica, a un’aridità dilagante, quasi virale, che, in veste di metafora, affiora dalle sei tracce di Petricore e rimanda ai comportamenti individuali e collettivi di una razza egoista come quella umana (“I’m from a selfish breed scared of how my end will be”), di una società sul lastrico e incattivita dai tanti ostacoli dell’assurdo quotidiano, in cui è più facile avventarsi contro gli altri che riflettere sulle proprie debolezze.

Se da un lato l’intenzione dei Wojtek è quella di lasciare inalterata la struttura portante del proprio impianto calligrafico – con vocalità cavernose scream & growl a sviscerare un pathos straziante grondante bile e disperazione – dall’altro si percepisce il desiderio di voler contenere la fisicità sludge e mitigare quel sound-mark così caustico, catramoso e urticante, pur conservando ritmiche serrate, ambientazioni sinistre e tonalità dense e oscure.

Così, mentre cadenze marziali scandiscono un tribalismo percussivo di allucinazioni sulfureo-doom, sotto l’aspetto ambient subentra la necessità di dare maggior ampiezza e melodia a certe tensioni strumentali, inclinando il piano atmosferico verso dilatazioni cosmiche e decelerazioni interstellari dagli echi dark-wave di assonanza Joy Division, come nel caso del singolo Giorni Persi, primo brano in assoluto cantato in italiano dalla band padovana.

In questo nuovo capitolo autorale, con sguardo socialmente critico e nichilista, i Wojtek provano a scandagliare gli abissi emotivi della contemporaneità e le continue metamorfosi di una comunità globale che, intrappolata in processi di massificazione ormai irreversibili, fa i conti coi propri tormenti interiori e col tempo che sfila via dalle mani come granelli di sabbia, così come i sogni e i ricordi. E allora non resta che il rimpianto misto a rimorso per quel tempo sprecato a rincorrere falsi miti, date di scadenza, e ad assecondare la cecità di dottrine religiose (“cieco il gregge al suo pastore, tale è la fede”) che, da secoli, dispensano la loro strategia di marketing infondendo paura e discordia tra i popoli (“dacci in pasto le tue paure, insegnaci la fede”).

Regna, pertanto, l’inerzia sociopatica dei nostri giorni (“if nothing matters, inertia reigns”), in cui le nostre esistenze si sono sempre più assoggettate al potere invasivo delle macchine (Hail The Machine). Di conseguenza, evoluzione tecnologica e l’illusione di gratificazioni virtuali hanno preso il sopravvento sulle nostre volontà d’azione (“sink everyday in this routine, you can’t betray, hail the machine, taste your coffee, all you hopes are denied”), affondando le nostre speranze nel frustrante ristagno della routine e nella reiterata menzogna di un domani migliore.

facebook/wojtek

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Andrea Musumeci
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