Siren Festival
Vasto, 24 – 27 luglio 2014
live report
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Al contrario dell’omerico Ulisse che per non cedere al fascino mortale del canto delle sirene si fece legare all’albero maestro della nave che lo stava riportando a casa, imponendo al proprio equipaggio di tapparsi le orecchie pur di non ascoltarle, è stato bello lasciarsi ammaliare dalle onde sonore diffuse dal Vasto Siren Festival, l’evento musicale (dell’anno?) che per quattro giorni – dal 24 al 27 luglio – ha elevato un punto periferico e marginale della provincia italiana a epicentro internazionale della musica indie rock, fissandolo sulla rotta dei principali festival europei.
The National, Mogwai, Fuck Buttons, John Grant, Anna Von Hausswolff, The Soft Moon, Tycho, The Drones; questi i nomi principali di un ricco cartellone spalmato su quattro scenari naturali inseriti nel centro storico della cittadina abruzzese (più un paio giù alla Marina che hanno ospitato alcuni dj set dopo i live), compresi tra il main stage di piazza del Popolo, l’Arena delle Grazie, i giardini ed il cortile di palazzo D’Avalos. Tutti raggiungibili con una breve e piacevole passeggiata di pochi minuti, godendo dell’incredibile spettacolo offerto dal golfo d’oro che si allarga fino ad abbracciare il Gargano; un panorama unico e straordinario che ha rappresentato il vero valore aggiunto del festival, sfondo ideale per selfie d’ordinanza.
Ma andiamo con ordine. L’ambizioso progetto nato dalla lungimiranza di Louis Avrami – un americano del New Jersey che da vent’anni passa le sue estati sulla spiaggia della cittadina abruzzese, proprio davanti a quel monumento alla bagnante chiamato comunemente la sirenetta ed al quale il festival deve il nome – ha avuto un’anteprima (fuori abbonamento) giovedì 24 luglio nello splendido cortile di palazzo D’Avalos, proponendo in sequenza la proiezione del bellissimo Mistaken For Stranger – più che un documentario, una seduta di psicanalisi familiare girata da Tom Berninger sul lato più intimo e personale della band capitanata dal fratello Matt, ovvero quei National ormai lanciatissimi nell’empireo del rock – ed il live del nuovo lavoro dei Giardini di Mirò Rapsodia Satanica in uscita a settembre ed ispirato all’omonimo film muto del 1917 recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna, che ha rappresentato anche l’ultima esibizione del batterista Andrea Mancin, in procinto di trasferirsi all’estero.
L’incontro al termine della proiezione ha visto la presenza di entrambi i fratelli Berninger, apparentemente riconciliati dopo troppi anni di lontananza e tentativi (fallimentari) da parte di Tom di dimostrare di non essere soltanto il fratello sfigato di Matt; cosa che, a giudicare da questo rockumentary definito da Michael Moore “uno dei migliori documentari su una band che io abbia mai visto”, sembra finalmente essergli riuscita. A seguire, pur penalizzato da un’amplificazione non all’altezza (purtroppo una costante registrata durante tutto il festival), il concerto del gruppo reggiano ha dimostrato ancora una volta tutta la caratura della band, capace di offrire quarantacinque minuti di musica tiratissima e luciferina, arricchita da nuove e ben amalgamate sfumature dal tono orientaleggiante e mediterraneo.
Nelle sue intelligenti commistioni di musica, cinema e letteratura, la seconda giornata del festival (che poi in effetti sarebbe la prima) si è aperta con un omaggio a John Fante, lo scrittore americano al quale il paese di Torricella Peligna – borgo montano in provincia di Chieti da dove il padre Nick emigrò agli inizi del ‘900 per cercare fortuna nel nuovomondo – dal 2006 dedica il festival “Il Dio di mio padre” divenuto nel tempo una delle manifestazioni più interessanti che l’Abruzzo culturale possa vantare, conosciuta ed apprezzata nel resto d’Italia grazie alla presenza di ospiti di caratura internazionale, da Vinicio Capossela al filosofo Gianni Vattimo. Nel frattempo all’Arena delle Grazie, davanti a pochi intimi, i romani Boxerin Club hanno avuto l’onore (e l’onere) di aprire ufficialmente la prima edizione del Siren Fest.
Nel gioco di incastri e di scelte che anche questo festival, senza eccezioni, ha costretto a fare, approfittando anche delle brevi distanze tra un palco e l’altro, abbiamo deciso di spostarci all’interno del cortile di palazzo D’Avalos incuriositi dal nome di Anna von Hausswolff, non prima di aver ascoltato en passant in piazza del Popolo un paio di brani dei Dry The River che, sinceramente, ci sono scivolati addosso senza lasciare traccia. La giovane pianista svedese, con i suoi lunghi capelli biondi in parte raccolti a treccia, il viso diafano e gli occhi azzurri sembra davvero un angelo, ma di quelli caduti dal cielo, capace di trasmettere sonorità tutt’altro che pacificate, venate come sono da inquietudini e turbamenti. A lei il compito di chiudere il festival domenica 27 esibendosi nella chiesa di San Giuseppe; performance che non abbiamo avuto modo di seguire, ma che siamo sicuri sia stata ancora più convincente del live di palazzo D’Avalos.
Intanto la notte è scesa sulla città, il pericolo pioggia è stato definitivamente scongiurato e tra il main stage centrale con gli australiani The Drones e la periferica Arena delle Grazie con gli italici Ninos Du Brasil, sotto i colpi di garage rock & psichedelìa ed electro samba & techno primordiale, l’atmosfera si è (finalmente) scaldata. Due spettacoli completamente diversi eppure ugualmente coinvolgenti; più cerebrali i primi rispetto alla fisicità dei secondi; due ottimi live preludio al gran finale di giornata. Prima di lasciarci conquistare dai demoni di Brooklin, però, c’è stato ancora tempo per tornare a palazzo D’Avalos dove The Soft Moon hanno dato vita ad uno spettacolo cupo e tesissimo, ipnotico ed a tratti insostenibile, purtroppo penalizzato come già accennato da un sound imperfetto.
Ma, al di là di tutto, doveva essere la notte dei National e così è stata. Avevamo lasciato Matt Berninger a giugno scorso ubriaco e senza voce sul palco del Primavera Sound di Porto, lo ritroviamo più sobrio (anche se nel corso dello show attingerà più volte da una bottiglia di vino opportunamente tenuta in fresco in un secchiello per il ghiaccio) e decisamente più in forma, sbracandosi solo sul bis finale ripreso per tre/quarti dallo stesso concerto portoghese. Così come l’avvio, con la doppietta Don’t Swallow The Cap, I Should Live In Salt, quest’ultima dedicata su disco al fratello Tom, del cui rapporto problematico abbiamo già detto. Nella prima parte la scaletta prevederà brani presi dagli ultimi due lavori targati 4AD Trouble Will Find Me e High Violet, ad eccezione della sempre più sgraziata Squalor Victoria pescata dall’ancora precedente Boxer. Ad essere sinceri il concerto non ci ha convinto del tutto, così come la presenza della sezione fiati completamente avulsa dal contesto di una band apparsa nel complesso un po’ stanca, essendo in tour praticamente da un anno e mezzo. Non così tanto però da risparmiarsi il consueto bagno di folla che invece Tom Beringer si concede sul dittico finale Mr. November/Terrible Love, scendendo dal palco per entrare in un bar lì vicino per poi riuscirne da un’altra porta, issandosi fin quasi ad un balcone per un saluto ad una sorridente signora, attraversando il pubblico in delirio lungo il perimetro della piazza con il filo del microfono sempre più teso, ed infine congedandosi dalla folla sulle note acustiche dell’ormai classica Vanderlyle Crybaby Geeks, cantata a squarciagola dalla folla osannante. La serata sarebbe potuta continuare col dj set sulla spiaggia della Marina o, in alternativa, nel cortile di palazzo D’Avalos con i film della rassegna Across The Movie, ma la stanchezza ha avuto il sopravvento e per noi il festival si è concluso qui.
Imponente e maestosa, la dimora che ospitò i marchesi del Vasto fino ai primi anni dell’800 ha aperto anche gli appuntamenti della terza giornata, ospitando negli splendidi giardini fioriti con pergolato di bouganville la presentazione del libro 50 per ’70 di Carlo Bordone alla quale hanno preso parte il direttore della rivista musicale Rumore Rossano Lo Mele ed il critico John Vignola. Distesi sull’erba, sorseggiando un calice di vino della cantina Fontefico, altra eccellenza del Vastese, si è discusso di dischi ed annate storiche e del futuro dell’editoria musicale, lasciando subito dopo lo spazio all’esibizione di Thony, l’artista siciliana salita agli onori della cronaca per la partecipazione al film di Paolo Virzì Tutti I Santi Giorni, sia in veste di autrice della colonna sonora, sia di attrice protagonista, ruolo per il quale ha ricevuto anche una nomination al David di Donatello.
Purtroppo abbiamo sacrificato Thony per spostarci all’interno del palazzo per l’esibizione di Tycho e così facendo la nostra scelta si è rivelata sbagliata perché lo show dell’artista americano ci è sembrato bello in prima battuta, ripetitivo al secondo ascolto, monotono già a metà concerto, tanto che si è deciso di recarsi in piazza del Popolo dove un altro americano – John Grant – sta raschiando nell’anima di numerosi appassionati giunti a Vasto appositamente per lui, altro che National o Mogwai! Il cantautore di Denver – anch’egli ascoltato di recente al Primavera Sound – ha concesso uno spettacolo bellissimo, capace di avvolgere il lirismo degli esordi con una spessa corazza elettronica ed oscura, alternando sprazzi di luce al buio delle tenebre che ci portiamo dentro. Proprio come il cielo sopra di noi che, minaccioso, non prometteva niente di buono, come i lampi in lontananza lasciavano supporre, ma che alla fine risparmierà il popolo indie rock dalla sua furia.
Prima del gran finale ci siamo recati in zona Arena delle Grazie per assistere alla performance di Camilla Sparksss, non prima di aver incrociato la musica di strada dei Pink Puffers ed aver constatato con piacere che oltre a vivere intensamente queste giornate a ritmo di rock, giovani festivalieri, villeggianti e turisti vari a tavola hanno comunque potuto apprezzare l’attitudine slow dell’offerta gastronomica locale, rifocillandosi con gli immancabili arrosticini ed assaporando lo street food gourmet dello chef Jean Pierre Soria del ristorante Cibo Matto o la proposta gluten free vegana e vegetariana della chef Simona Ranieri, offerti presso l’area degustazione organizzata con il coinvolgimento della locale condotta Slow Food del Vastese.
Tornando alla musica, l’artista canadese – già 50% del progetto Peter Kernel portato avanti in compagnia di Aris Bassetti – altri non è che l’alter ego elettronico di Barbara Lehnhoff; con il progetto Camilla Sparksss si è presentata sul palco in compagnia di una balleria (o ginnasta) non professionista dando vita ad uno spettacolo molto fisico e di pancia. Costretta ad improvvisare a causa di un furto di attrezzature subito a Pescara il giorno prima, ha azionato manopole, ha manomesso synth, ha urlato nel microfono, fino a scendere in platea per ballare con il pubblico divertito ed anche un po’ intimorito da tanto ardore. Alla fine il coinvolgimento è risultato totale, con i bassi possenti entrati in loop nel cervello fino a non uscirne più.
Riguadagnato il centro nevralgico del festival, abbiamo scelto di disintegrarci nel cortile di palazzo D’Avalos pieno al limite della capienza sotto i colpi possenti dei Fuck Buttons, il duo di Bristol scelto dal regista Danny Boyle (quello del film Trainspotting) per la cerimonia inaugurale delle olimpiadi londinesi del 2012. Come nella migliore tradizione elettronica, sul palco fanno capolino due laptop e tante manopole, con i protagonisti posti uno di fronte all’altro e delle proiezioni di visual effects sullo sfondo. La loro trance picchia duro, mandando in estasi il (giovane) pubblico, grazie anche alle potenti luci stroboscopiche sparate in faccia ad altezza uomo. Siamo in pieno rave party, con i due sabotatori sonori distaccati e poco propensi ad interagire con il pubblico, capaci comunque di esaltare la platea in un crescendo totale fatto di vibrazioni tribali e drone spacca timpani. Ma è arrivato ormai il tempo di correre al cospetto di un simpatico animaletto.
Al contrario dei National, i Mogwai li abbiamo ritrovati esattamente come li avevamo lasciati sul palco del Parque da Cidade di Porto; anche la scaletta è risultata praticamente la stessa del concerto portoghese, con il tris d’assi in apertura rappresentato da White Noise, I’m Jim Morrison, I’m Dead e Master Card. Di granitica bellezza, la band scozzese non sbaglia un colpo, marciando e suonando ad ogni show come un corpo compatto in cui tutti sanno con esattezza cosa succederà. Penalizzati forse dal forte vento che ha imperversato durante tutta l’esibizione indebolendo di fatto il consueto e potente muro del suono a cui siamo abituati, senza concedere nulla al pubblico se non diversi ringraziamenti anche in italiano ed un apprezzamento per la splendida location, Braithwaite e soci hanno regalato un’ora e mezza di spettacolo assoluto, incorniciato nella solita scenografia minimal composta dai tre esagoni disegnati sulla copertina di Rave Tapes, il loro ottavo album da studio uscito ad inizio anno. Un’ora e mezza senza sbavature che ci ha accompagnato fino a casa rintronati e felici.
Buona la prima, dunque? Sicuramente sì, anche se a nostro modesto avviso paradossalmente bisognerà sperare che nei prossimi anni il Vasto Siren Festival non cresca troppo in termini di presenze, soprattutto per un discorso di vivibilità sostenibile e gestione degli spazi. Bellissimi come dicevamo, vero e proprio valore aggiunto di questa inedita rassegna cittadina, ma sicuramente incapaci di soddisfare un aumento consistente di pubblico previsto e naturalmente auspicata dagli organizzatori in futuro, giunti già al limite della saturazione come nel caso del concerto dei Fuck Buttons nel cortile di palazzo D’Avalos; oppure nei giardini accanto, luogo ancora a misura d’uomo per incontri e concertini off, ma già intasato lungo i vialetti in ingresso ed uscita tra turisti in visita e pubblico presente esclusivamente per l’evento. Ci sarà tempo e modo comunque per pensarci; per adesso godiamoci la bellezza di ciò che è stato, con la consapevolezza che grazie al coraggio di una provocazione in grado di suscitare meraviglie, le bellezze di Vasto e dell’Abruzzo resteranno ancora a lungo negli occhi e nel cuore della grande famiglia internazionale del popolo indie rock.
(si ringrazia per la collaborazione Vincenzo Riggio).
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