Turangalila
Lazarus Taxa
(Private Room Records)
post-rock, sonorizzazioni cinematiche, space ambient, sludge, folk popolare, post metal
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La psichedelia chiedeva di indagare l’inconscio, di comunicare a un livello più profondo, di realizzare un’esperienza sensoriale che andasse oltre i confini del mondo materiale.
A distanza di due anni dall’esordio con Cargo Cult, e anticipato dai singoli Antonio, Ragazzo Delfino, To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye, esce il sophomore album dei Turangalila intitolato Lazarus Taxa, edito per la label indipendente Private Room Records (all’interno della programmazione Puglia Sounds Record 2023) e prodotto da Marco Fischetti presso Death Star Studio.
In questo sequel discografico, ispirandosi all’omonima sinfonia composta da Messiaen e schivando il rischio di un effetto deja-vu, il quartetto barese (composto da Michele De Luisi, Antonio Maffei, Giovanni Sollazzo e Costantino Temerario) porta avanti quella corrispondenza armonica tra musica e immagine che abbiamo apprezzato in Cargo Cult, ampliandone sospensione onirica e percezione sensoriale, ma senza compromettere la propria identificazione stilistica.
Così, nel rispetto di un saliscendi emozionale in cui intuizioni visionarie (quand’anche bizzarre nei testi) e riflessioni introspettive si traducono in suggestive scenografie sonore, i Turangalila riescono a ritagliare sonorità su misura per ogni mood e a trasformare la musica in metafora psicanalitica di un viaggio interiore, di un concept epico ed evocativo, assecondando una prospettiva di confini che non dividono ma uniscono, e dimostrando di saper maneggiare, modellare e dosare forme e consistenze all’interno di un’esperienza totalizzante.
Focalizzandosi sull’idea di una sopravvivenza biologica che si manifesta nel ritmo del tempo e nel cambiamento, attraverso un processo naturale prima di estinzione (“humans are gone, as waterfall they’ve gone”) e poi di riscoperta, il collettivo pugliese si concede in tutta la sua ricchezza timbrica, con un’abilità espressiva in grado di padroneggiare la formula dell’alternanza, passando con delicatezza dalla quiete malinconica di un post-rock dal taglio folk-bucolico (Reverie, Jisei) al caos plumbeo e soffocante di dissonanze post-metal e sludge (To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye), per poi tornare nuovamente a quella condizione di quiete iniziale.
Seguendo tale lunghezza d’onda, le dieci tracce di Lazarus Taxa (otto cantate in inglese e due strumentali, Reverie e Jisei) si muovono lungo varie direttrici, cercando strade alternative e al tempo stesso complementari: si va da antichi tribalismi percussivi a vocalità di eterea natura dream-gaze, dalle linee argentee di un post-rock acuminato ed enigmatico (Ugo e Antonio, Ragazzo Delfino) al magnetismo di riff circolari, fino a raccogliersi nell’ampiezza sensoriale della titletrack, dove ipnotiche luccicanze space-ambient si mescolano a sonorizzazioni cinematiche e progressive anni 70.
C’è dunque il desiderio di raccogliere nuovi segnali di vita e di abbandonarsi a quel fantasticare ad occhi aperti che si prova dinanzi a un cielo in perpetuo movimento, nel vicendevole scambio tra precipitazioni metalliche e squarci di luci albeggianti che graffiano il buio, mentre tutto finisce per esaurirsi lentamente in un profondo senso di tranquillità, di nichilismo e di esilio dalle cose terrene, come una poesia dell’addio.
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