Trust The Mask
Idiom
(Bronson Recording)
synth-wave, synth-dark, etnica, oriental-wave, trip-hop, cyber-pop, glitch, space ambient, EDM
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L’atto di indossare una maschera, nella sua essenza mediatica abile a catalizzare e trasmettere emozioni, è un rituale antico, riscontrabile in numerose culture di epoche diverse.
Anticipato dall’uscita dei singoli Will You Come?, Otaku e Our Fault, è uscito Idiom, l’album d’esordio della band synth-dark Trust The Mask, edito per Bronson Recording e prodotto assieme al musicista e producer Matteo Vallicelli.
Quello delle Trust The Mask (duo composto dalla compositrice e musicista Elisa Dal Bianco e dalla cantante Vittoria Cavedon, entrambe provenienti da Schio, in provincia di Vicenza) è un progetto alimentato da una passione condivisa per simbiosi elettroniche in grado di creare un filo conduttore tra melodie sintetiche dalle atmosfere retrò e ricerca di nuove contaminazioni multiculturali, tra sintetizzatori e strumentazione non convenzionale, oltre a un’accentuata sensibilità verso tematiche legate all’ambiente, ai cambiamenti climatici e al futuro della terra compromesso dall’umanità – come nell’episodio di Our Fault (“you teach us how to care of you, but we choke you with our smoke”).
Nelle dodici tracce di questo primo step discografico – con la collaborazione di Matteo Vallicelli (The Soft Moon), Andrea Cola, Bruno Dorella (OvO, Ronin, Bachi Da Pietra), RYF e Cemento Atlantico – le Trust The Mask danno vita a un concept elettronico dai riflessi umbratili e neo-romantici, servendosi di algida dark-wave di matrice albionica, pulsazioni cardio-synth puntellate da effetti glitch e industrial e groove glassati di nostalgia dream-pop a tinte noir, a cui si aggiungono ritmiche evocative dal sapor mediorientale, canti di monaci tibetani, la magia etnica di flauti indonesiani e armeni e vocalità angeliche, vellutate, eteree, suadenti e balsamiche che rimandano a Boy Harsher, Beach House, Still Corners e I’m Not A Blonde.
Per ciò che riguarda l’intreccio narrativo della release, sospeso tra introspezione e malinconia chiaroscurale, le Trust The Mask concentrano la loro scrittura testuale sui lati spinosi e più vulnerabili del nostro tempo, dei nostri drammi quotidiani, sul paradosso dicotomico della maschera, in cui l’apparente fissità esteriore cela molteplici stati d’animo, e sull’insensibilità di una cultura di massa che, sempre più digitalizzata, formattata e dipendente dalle nuove tecnologie, fatica sia a riconoscere il linguaggio universale della natura sia a tutelare l’importanza delle interazioni umane, schermandosi dietro realtà parallele fatte di maschere virtuali (“why should I live in only one skin?”), dietro esistenze anonime che finiscono per subordinare la propria identità ai fuggevoli consensi di convenienza sociale.
Ispirandosi ai concetti giapponesi di honne e tatemae (rispettivamente tutto ciò che si mostra alla società e tutto ciò che si nasconde), il duo vicentino osserva con disillusione la caducità della vita e l’ineluttabilità del tempo, rivisitando la Canestra di Frutta del Caravaggio (come rappresentato nell’artwork grafico), in cui calchi di volti di ghiaccio vengono raffigurati accanto a frutta di ghiaccio colorato.
Con Idiom, le Trust The Mask “scrivono maschere e indossano canzoni” (se volessimo scomodare un gergo alla Lucio Corsi), setacciando un modo alternativo di stare al passo con le trasformazioni del mondo, interrogandosi in tal senso e affrontando il dolore delle mancanze e l’amarezza delle delusioni amorose (“we’re at the end but you don’t understand”). Se da un lato resiste quel desiderio di esprimere la propria interiorità in relazione a ciò che avviene all’esterno, dall’altro troviamo il tentativo di assecondare un’espressione musicale che abbracci la contemporaneità in divenire e, contestualmente, certi profumi artigianali d’una volta.
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