Travis
L. A. Times
(BMG)
britpop
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Fratelli minori degli Oasis e maggiori dei Coldplay, i Travis hanno pagato il loro essere ‘figli di mezzo’ dell’ondata del brit pop degli anni ’90, privi dei privilegi della primogenitura, e delle coccole degli ultimi arrivati.
Certo, si sono presi le loro soddisfazioni, a cominciare da quella Sing che a inizio anni ’00 fece cantare (appunto) mezzo mondo, ma l’impressione è che ‘incastrata’ tra le intemperanze da tabloid dei fratelli Gallagher e la mastodontica macchina da stadi messa su da Martin e soci, la band scozzese sia rimasta più ai margini di quanto avrebbe meritato.
C’è chi, insomma, avrebbe mollato la presa molto prima: non i quattro di Glasgow, che tra l’altro sono gli stessi degli inizi, caso non così frequente di un sodalizio musicale che abbia resistito intatto al passare del tempo, forti del classico ‘pubblico affezionato’ che ha continuato a seguirli.
A cinque anni dal pecedente 10 Songs (il tempo comunque passa e i ritmi e la vena creativa non possono più essere quelli di una band di ventenni), i Travis tornano con il nono album in ventisette anni di carriera (decimo, considerano la raccolta Singles): L. A. Times.
Il frontman Fran Healy lo ha definito come il più ‘personale’ dai tempi di The Man Who, secondo lavoro del gruppo, uscito 25 anni fa, che ne sancì il definitivo decollo
Dieci pezzi, prodotti da Tony Hoffer (AIR, Beck, Phoenix), che ci mostrano una band prevedibilmente a proprio agio quando si tratta di mettere del ‘mestiere’ in ciò che meglio sa fare: un pop / rock che ondeggia tra ricchezza sonora senza esagerazioni, e momenti più raccolti.
Gaslight è un esempio della prima categoria, scelto come primo singolo, dedicato tra l’altro al tema più che mai attuale della manipolazione nelle relazioni sentimentali e non solo (Healy e soci non hanno mai rinunciato a prendere posizione su temi sociali o politica).
Se in Raze The Bar arrivano gli amici Chris Martin e Brandon Flowers a dare una mano, la sardonica I Hope That You Spontaneously Combust sembra presa di peso dal repertorio di Beck, mentre Naked in New York City restituisce suggestioni da neofolk Made in U.S.A., dando l’idea di una band a cui piace ogni tanto lasciare la propria zona di conforto.
Tuttavia la title track posta in chiusura col suo tentativo di flirtare con l’hip hop finisce per stridere un po’, sembrando il classico passo più lungo della gamba.
Non un capolavoro, ma il disco di una band ampiamente rodata, dalle idee (quasi) sempre chiare.
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