Tombstones In Their Eyes
Asylum Harbour
(Kitten Robot Records)
rock, post-rock, shoegaze, psichedelia
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Difficilmente nel corso della mia esperienza musicale mi era capitato di imbattermi in un gruppo come i Tombstones In Their Eyes, formazione dal nome bizzarro (va detto), che riesce a fondere di tutto all’interno di una proposta che si caratterizza per essere originale nella sua più completa derivazione.
Spieghiamoci meglio.
Questi signori di Los Angeles sono cresciuti a pane e psichedelia, ma dentro alle loro conoscenze ci hanno piazzato cenni molto forti di My Bloody Valentine, shoegaze e anche post rock, con rimandi agli Slint. Insomma, il minestrone è bello succulento, confortato da un sound molto rallentato (non è doom, quello no!) che ti entra sotto pelle in maniera quasi subdola, tanto che dopo qualche ascolto difficilmente ne vuoi e puoi fare a meno.
Il contrasto del cantato, con voci maschili e femminili che si fondono in una sola entità, eleva ancora di più una musica che pare essere stata scritta per una parte alla fine degli anni sessanta e per un’altra ad inizio dei novanta.
Ed è così che Asylum Harbour si sviluppa con riferimenti inglesi (ritornate ad inizio recensione per capire a chi ci si riferisce), soprattutto quando scorrono sul platter brani come Mirror e Sweet As Pie che, chissà per quale strano motivo, mi fanno ripensare ai seminali Lush.
Le melodie, molto trasversali, mantengono un magnetismo di base che fa solo bene alle orecchie.
Gli anni sessanta spuntano meravigliosamente nel “lentone” lisergico I’m Not Like That, mentre By My Side, piena di riverberi e fuzz, è puro shoegaze di qualità.
Facendoci due conti, possiamo dire che i Tombstone In Their Eyes rappresentano, nonostante una discografia bella corposa, come si può notare andando a sbirciare Bandcamp, quel puro sottobosco di gruppi ignoti o poco famosi che ci portano a sperare che nel mondo della musica è rimasto qualcosa di piacevole e bello. Andateli a ricercare e a scoprire, perché ne vale davvero la pena.
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