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The Smile: recensione di Cutouts

The Smile e il nuovo Cutouts: quello che una volta era considerato uno spin-off dei Radiohead è ormai una creatura che cammina sulle proprie gambe.

The Smile

Cutouts

alt-rock, alt-pop, jazz, indie rock

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Spoiler alert: contiene qualche inglesismo (come, chessò, “spoiler alert”, ad esempio…).

Sono mesi, se non anni, che mi interrogo sul successo di The Smile.

Non è un discorso qualitativo, ma ho sempre faticato a trovare nell’offerta dell’”altra band” capitanata da Thom Yorke quella minima dose di pop in grado di giustificare concerti sold out pressoché ovunque, con milioni di riproduzioni in streaming dei singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album. Avrà a fare con la sparizione dei Radiohead da tempo immemore? Bene, credo di essermi appena risposto da solo.

Ok (Computer), ricominciamo: l’uscita in questo 2024 del loro terzo album, a distanza di pochi mesi dall’acclamato Wall of Eyes, ricorda per certi versi ciò che la band di Oxford fece nell’ormai lontano 2001 con Amnesiac e il suo illustre predecessore Kid A. Erano altri tempi, certo, ma soprattutto-letteralmente-un altro gruppo. Al massimo della popolarità e comodamente adagiati sulla vetta più alta della propria creatività, da cui osservavano indisturbati le gesta di molti contemporanei.

Fast forward ai giorni nostri; la storia si ripete, stavolta con The Smile e questo Cutouts che, come il titolo suggerisce, è una raccolta di brani provenienti dalle sessions di registrazione di Wall of Eyes.

Come per un quarto di secolo fa, parlare di out-takes è però quantomeno riduttivo. Un quarto di secolo di già… ma Yorke e il fedelissimo Jonny Greenwood (con l’aggiunta del terzo non-incomodo Tom Skinner) non hanno intenzione di lasciare, anzi raddoppiano.

Se il brano I Quit su Wall of Eyes poteva suggerire un’ipotesi del genere, la risposta è in Cutouts.

Ciò detto, i due dischi si somigliano più o meno quanto Jonny Greenwood e… Colin Greenwood!

Foreign Spies ha un respiro cinematografico. Fa pensare ai titoli di testa di una spy-story in un futuro distopico, ambientata in una Twin Peaks in versione 8-bit. Un po’ Elmer Bernstein, un po’ Vangelis.
Instant Psalm è più ‘ipnotica’. Bello il contrasto tra archi (sintetici e non) e le sporcature della chitarra acustica, sapientemente enfatizzate dal mix.

Il frenetico fraseggio di chitarra di Zero Sum, non me ne vogliano i fans, è ai limiti dell’onanismo, ma forse la chiave di lettura sta proprio qui: è un ascolto impegnativo, ma assai ben ripagato una volta superato il primo minuto. Vale per il brano, così come per l’intero album. Il verso “Thinking all the ways the system will provide / Windows 95, Windows 95” è un manifesto di poesia neo-modernista.

Colours fly: bella e impossibile, con quel suo sapor mediorientale. Psichedelica, jazzy, sognante.
L’uscita come singolo risale appena a una settimana fa, ma i fans più attenti sanno già che la canzone viene eseguita dal vivo, con regolarità, da almeno un paio d’anni. C’è stato persino chi lamentava l’inspiegabile assenza del brano su Wall of Eyes.

Discorso analogo per Eyes and Mouth. Qui la chitarra di Greenwood e la batteria di Skinner si rincorrono all’impazzata, fin quando il piano jazzato di Yorke arriva a mettere ordine. La sua voce ha qualcosa di disperato. Più del solito, ai limiti della distorsione. L’effetto complessivo è piacevolmente frastornante.

L’inizio di Don’t get me started potrebbe sembrare-nonostante il synth analogico-quasi un blues di quelli classici, a cui non puoi resistere e devi per forza schioccare le dita. Ma è un inganno. L’ingresso delle percussioni ti trasporta all’istante in un’altra dimensione.

Tiptoe entra-appunto-in punta di piedi, per poi letteralmente colpirti con un destro al volto sferrato dall’intera London Contemporary Orchestra, quando meno te lo aspetti. La voce che ricalca la melodia del piano si limita ad aggiungere un tono fanciullesco al brano, che con la stessa leggerezza con cui è entrato guadagna prontamente l’uscita.

The Slip invece colpisce soprattutto per il lavoro di Skinner alla batteria, ma è No Words che regala un sussulto. Questo arpeggiator “va un casino quest’anno”, direbbe Mugatu. Basti ascoltare alcune recenti uscite di Mogwai o di Nick Cave, persino. C’è anche molto altro: i King Crimson di Frame by Frame? Una versione krautrock di 7empest dei Tool? Gli artisti citati, del resto, più di una volta si saranno scoperti a parlare la stessa lingua, seppur con accenti marcatamente diversi. Sta di fatto che questo è il pezzo più trascinante dell’album. Arriva dopo circa 40 minuti di ascolto e quando finisce ti sorprendi a volerne ancora.

Bodies Laughing è la chiusura perfetta. Un intreccio di chitarre acustiche, synth e un ritmo bossanova dove la voce di Yorke si insinua subdola e seducente. La leggenda narra che sia stata scritta mentre la band era in tour, ed eseguita dal vivo solo 24 ore dopo.

Quello che una volta era considerato uno spin-off del gruppo originario ad opera dei due “figlioli prodighi” (sì, ho controllato sulla Treccani…) è ormai una creatura che cammina sulle proprie gambe. Anche se a tratti sembra incespicare mantiene un passo spedito. Tre album in tre anni ne sono la prova tangibile.

Ciononostante, l’ascolto di Cutouts lascia un sapore dolceamaro: è, forse, l’opera che ricorda più da vicino le ultime cose dei Radiohead e, paradossalmente, questo per i fans è un problema. Perché il sospetto è che alcuni dei brani non apparissero nel disco precedente quasi per pudore, perché un po’ ricordavano i tempi di In Rainbows, o per il timore che potessero idealmente segnare la fine di quell’esperienza. Però-udite udite-si vocifera di un recente ritorno in sala prove della “famiglia” al completo, dopo ben otto anni-altro che spy-story!.

Piuttosto che perderci in questo labirinto di congetture, tanto meglio perdere il filo cercando di stare dietro ai riff di Greenwood o alla batteria sincopata di Skinner. Chi, invece, dovesse avere difficoltà con la voce di Yorke potrebbe persino rimanere sorpreso.

Naturalmente questo non riguarda i vecchi fan. Fu solo hype? Ai posteri l’ardua sentenza.

Ascolta l’album

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