The Magnetic Fields
Realism
(Cd, Nonesuch Records)
pop, folk
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E’ inevitabilmente difficile dare un seguito a quel capolavoro-summa del pop (e di tutti i gradienti possibili della canzone d’amore) che era 69 Love Songs. Per farlo Stephin Merritt ci ha provato, con i suoi Magnetic Fields, con la cosiddetta “trilogia senza synth”, ora arrivata al terzo capitolo con questo Realism. E se già il compito si era dimostrato quasi impossibile con I e Distortion, anche questo disco, nato come i precedenti per combattere comunque sullo stesso campo di 69 Love Songs (ché Merritt difficilmente scrive qualcosa che non sia una canzone d’amore), arranca e affascina in egual misura.
Realism è nato concettualmente in contrapposizione con il precedente album: se infatti Distortion era uno stilizzato disco pop riverberante feedback, questo è invece un lavoro prettamente acustico (con strati e strati di chitarre, liuto, ukulele, violini, violoncelli, fisarmoniche…) che vuole richiamare alla mente l’opulenta grazia del folk orchestrale degli album di fine anni ’60 di Judy Collins. Ma, come per i precedenti due album, per quanto Merritt & Co. cerchino una soluzione (concettuale e d’arrangiamento) per prendere le distanze da 69 Love Songs, la sostanza non cambia: alla fine quello che si ha tra le mani sono sempre canzoni che giocano elegantemente sul confine tra kitsch e pop prendendo a piene mani dalla tradizione anglosassone e non solo (folk, country, rock, danze balcaniche, vaudeville, swing, jazz, e chi più ne ha…), con testi scritti da uno dei migliori parolieri degli ultimi vent’anni in fatto di ironia e proprietà di linguaggio.
Insomma: Merritt continua a scrivere alcune delle migliori melodie (e dei migliori testi) dagli anni ’80 a questa parte, ma non può battere il fantasma del suo capolavoro se non facendo meglio.
Cosa che neanche qui gli è riuscita. Sia chiaro, a Realism non mancano, come sempre con i MF, almeno tre o quattro numeri con melodie istantanee, praticamente indimenticabili, e dai testi divertenti fin quasi al midollo; ne sono un buon esempio l’opener I Don’t Know What To Say coi suoi sciabordii di banjo punteggiati da pizzicati di violino, la Always Already Gone che brilla per la stupenda linea vocale in minore, la Better Things con il suo bagaglio di lirismo (quasi) insolito per una canzone dei Magnetic Fields e con un refrain a due voci che potrebbe durare all’infinito, per grazia e bellezza.
Ma, come sempre d’altronde, non mancano anche qui canzoni (We Are Having a Hootenanny, The Doll’s Tea Party e Everything Is One Big Christmas Tree, The Dada Polka) che, nel pericoloso gioco d’equilibrio tra teatralità, kitsch e pop, finiscono per cadere un po’ troppo nella rete del kitsch: un gioco che vale magari la candela quando si ha a che fare con un calderone di 69 canzoni e tre ore ma che, nell’ambito dei canonici 40 minuti di un album, finisce per intaccare un po’ troppo la godibilità dell’ascolto.
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