The Cure
Songs Of A Lost World
(Lost Music/Fiction Records/Capitol/Polydor/Universal)
Gothic rock, alt-rock
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Non sparate sui Cure, non sparate su Songs Of A Lost World, perché dopo sedici anni di spasmodica attesa questo album del ritorno suona proprio come un homecoming.
Scrivere dei Cure è un po’ come commentare la Divina Commedia, come si fa a toccare i propri miti adolescenziali e compagni di una vita intera?
Sa un po’ di blasfemia, per questo voglio precisare che quanto avrete la pazienza di leggere non è una recensione ma un atto dovuto, un atto d’amore.
Sono cresciuta e divenuta adulta con dischi seminali che hanno cambiato per sempre il mio modo di ascoltare, percepire e sentire la musica, parlo di capolavori come Faith, Seventeen Seconds e Pornography, il mio preferito da sempre e credo per sempre, capaci di emozionarmi fino alle lacrime, sostenermi nei momenti bui e spronarmi in quelli di stanca.
Ai tanti che in questo ultimo periodo hanno accusato i Cure di non essersi fermati alla declamata trilogia rispondo che sarebbe stato un peccato madornale, perché mai, mi chiedo, avremmo dovuto privarci di opere abnormi come Disintegration, Kiss Me Kiss Me Kiss Me o Bloodflowers? Ciascuno a proprio modo ha raccontato l’universo sonoro e profondamente intimo di Robert Smith e di una formazione in continuo movimento, in costante ricerca nonché una tra le più generose e coinvolgenti dal vivo.
Sì è vero, ci sono stati anche attimi di confusione per chi come me non si aspettava episodi come 4:13 o Wild Mood Swings, ma perfino in queste che potrei definire opere minori compaiono brani clamorosi, parlo ad esempio di Want o Underneath The Stars ed a chiudere momentaneamente (spero) il cerchio dopo annunci e smentite, speranze e disillusioni, il primo novembre (data non scelta a caso), arriva come un dono dal cielo un full-lenght grandioso capace di spazzar via l’inutile chiacchiericcio di quanti non riescono proprio ad accettare il cambiamento, nella propria vita e pure in quella degli altri.
In buona sostanza, si può chiedere ai musicisti di scrivere sempre la stessa canzone?
La risposta, almeno la mia risposta, è no, non sono certo io a dovervi dire che la vita ci pone davanti un carnet di eventi dai quali è impossibile fuggire, subiamo dolori, lutti laceranti dai quali spesso è difficile riprendersi, incassiamo colpi bassi da persone dalle quali non ci saremmo mai aspettati di doverci difendere, pur nell’ostinato rigetto della senescenza siamo costretti a veder scorrere i giorni, i mesi e gli anni come un fiume inverecondo dove sprofonda la leggerezza della gioventù (quella di Calvino che non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore) fino a giungere alla consapevolezza dell’età matura con tutti i disagi del caso, ecco dovremmo ricordarci sempre che i musicisti sono innanzitutto persone e come tali, cambiano, si evolvono, soffrono, metabolizzano e per nostra fortuna creano.
Forse però i detrattori del caso hanno aperto bocca ancor prima di ascoltare il disco, i Cure erano da colpevolizzare solo per il fatto di essere ancora vivi, attivi e capaci di provocare fortissime emozioni, confesso di aver provato anche io un briciolo di ansia prima di schiacciare play su Alone, primo singolo estratto e coraggioso biglietto da visita, non so se fosse paura di una delusione o di non sentirmi all’altezza di percepire il loro messaggio ma invece so che pochi attimi in cuffia sono bastati per entrare completamente in questo nuovo mood, per capire che stavo tornando a casa, mano nella mano con i miei amici ritrovati.
Songs Of A Lost World, concepito in parte dal vivo durante la tournée mondiale Shows Of A Lost World (alcuni brani erano infatti già stati eseguiti dal vivo prima della rielaborazione in studio) è stato scritto e arrangiato dal geniale Robert Smith, prodotto e mixato dallo stesso Smith con Paul Corkett e naturalmente interpretato e suonato dai Cure; Robert Smith (voce/chitarra/basso a 6 corde/tastiera), Simon Gallup (basso), Jason Cooper (batteria/percussioni), Roger O’Donnell (tastiera), Reeves Gabrels (chitarra).
Otto tracce da togliere il fiato, partendo proprio da Alone che suona come un laconico testamento “This is the end of every song that we sing…”, oltre tre minuti di intro e poi la voce unica e irripetibile di Robert, in questo caso sofferta e piena di pathos che canta di sogni infranti e disillusione “…and here is to love, to all the love falling out of our lives, hopes and dreams are gone, the end of every song…”, dello scorrere inesorabile del tempo e della nostalgia di quel che siamo stati “…and we close our eyes to sleep to dream a boy and a girl who dream the world is nothing but a dream…”, è un brano lento, sognante e tormentato ad aprire le porte verso un dramma collettivo consumato in questo mondo smarrito che si sfalda pezzo per pezzo come metafora inversa della foto copertina, quella pietra non ancora plasmata ad opera di Janes Pirnat, Bagatelle (scultura, 1975).
And Nothing Is Forever, sinfonica e disarmante con l’entrata dei violini, naviga nelle stesse atmosferiche sensazioni di perdita, cooscienza e smarrimento che dall’alto di un cielo obnubilato e affranto spargono a pioggia infiniti petali di malinconia “…i know that my world has grown old and nothing is forever…”.
Si viaggia a vista su una zattera tirata a fondo dal peso dei rimpianti con A Fragile Thing, tutto scorre, tutto finisce, le cose belle e perfino quelle tremendamente oppressive, si canta il declino e la caduta irreparabile di un amore migrato chissà dove e non c’è nulla che si possa fare per salvarlo “…nothing you can do but sing, this song is a fragile thing,
this song is my everything, but nothing you can do to change the end.”
Il suono drammatico, storto e sofferto di Warsong ci riporta alla preistoria dei Cure, uno straordinario Robert tornato alle origini si immola per disegnare un mondo distopico, travolto da odio e vendetta, un mondo dove la guerra vince sulla pace, il disprezzo sull’amore “…oh it’s misery the way we fight for bitter ends we tear the night in two…for we were born to war…” Warsong è figlia di Pornography e come tale ci rimanda alla sua oscurità angosciosa accompagnata da un canto amaro.
E mentre Drone:Nodrone – con le sue magnifiche distorsioni acustiche molto vicine all’industrial – sembra proseguire su quella stessa sensazione di disorientamento cosmico dovuto ad eventi inspiegabili accaduti malgrado la nostra volontà, la toccante I Can’t Never Say Goodbye, dedicata al fratello maggiore di Robert recentemente scomparso, ci inghiotte in un dolore profondissimo, dolce, tenera, toccante, spacca il cuore in due e lo restituisce a brandelli “…there is nowhere left to hide and i can’t break this dreamless sleep however hard i try i’m down on my knees and empty inside….”
Ci si avvia verso il finale maestoso di Endsong con All I Ever Am, la constatazione di un processo inarrestabile tra inizio e fine vita, gli attimi si susseguono senza soluzione di continuità lasciandoci indeboliti, a volte sopraffatti dal peso dei ricordi e intimoriti dal futuro…ma nel frattempo cosa siamo stati? “…i waste all my world like this, intending time and memories and all for fear of what i’ll find if i just stop and empty out my mind of all the ghosts and all the dreams, all i hold to in belief
that all i ever am is somehow never quite all i am now…”
Endsong non è un brano, è una magia fuori da qualsivoglia percezione spazio/temporale, un sortilegio dal quale è impossibile uscire una volta entrati, un loop viscerale, una perla rara, una delle più preziose degli ultimi decenni cucito su un testo devastante, “it’s all gone” canta Robert con una intensità assoluta tra il suono avvolgente e le chitarre acide, “it’s all gone” canta Robert che come nessuno riesce ancora a lasciarmi prostrata di fronte a tanta bellezza, in quello stato di confusa grazia a metà strada tra gioia e disperazione.
Mi scuso con chi avrebbe voluto leggere dettagli su suoni, master, mixaggio, marche degli strumenti e altre necessarie diavolerie tecniche, il mio scritto non vi servirà a nulla, ma non farete fatica a trovare decine se non centinaia di articoli minuziosamente articolati, questa non è una recensione ma un atto dovuto, un atto d’amore incondizionato per una band irripetibile e un disco monumentale nel quale mi riconosco appieno, Songs Of A Lost World arriva esattamente nel momento più opportuno della mia vita, così mi inchino, mi ricompongo e ringrazio.
Songs Of A Lost World
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