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SVNTH: la recensione di Spring in Blue

Gli Svnth arrivano al terzo album: Spring in Blue è una finestra aperta sulle emozioni più intime, sul dolore provocato dalle perdite, alla vana ricerca di un senso esistenziale.

SVNTH

Spring in Blue

(Transcending Records)

shoegaze, blackgaze, black metal

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SVNTH_Spring in BlueÈ uscito Spring in Blue il terzo album dei Svnth (settimo genocidio), band romana attiva dal 2006. Se il debut album Breeze of Memories del 2015 era fortemente influenzato da un ibrido blackgaze dei primi anni zero nell’accezione più nostalgica del termine, Toward Akina uscito due anni più tardi offriva una miscela black metal con un appeal anni ’70 ed ampie trame post rock.

La ricerca e la sperimentazione sono nel frattempo proseguite anche in ambito lirico affrontando temi profondi come le aspettative della vita, l’introspezione, l’illusione amorosa, la vita oltre il confine terreno.

In questo contesto, qui ed ora, nasce e si sviluppa Spring in Blue, realizzato presso lo studio di Colin Marston; Menegroth The Thousand Caves di New York, dove sono stati prodotti molti dischi cari ai Svnth.

Con questo nuovo lavoro il quartetto alza l’asticella portando i propri orizzonti musicali su livelli diversi, in un mix di esplosioni black metal atmosferico con un forte tocco american sounding e solide radici rock che vanno dal classic rock anni ’70 allo shoegaze passando per il sadcore anni ’90.

Spring in Blue è una finestra aperta sulle emozioni più intime, sul dolore provocato dalle perdite, sul peso del mondo contrapposto alla vana ricerca di un senso esistenziale.

L’apertura è affidata a Who is dreamer? vera e propria incursione nel prog metal, l’atmosfera sognante è disturbata (in senso buono) dall’incedere sfrenato della batteria condita con il grido della chitarra che sfocia nella seconda traccia Erasing God’s Towers dall’intro dilatatissimo preparatorio ad una deflagrazione virulenta e mortifera.

Growl e scream come se piovesse, sound profondamente cupo, il brano è un climax ascendente in costante mutazione che chiude con una cavalcata frenetica dalla coda infinita.

Sons of Melancholia è una bella prova di virtuosismo, a tratti esasperato, dal pathos notevole. Ma sono le due tracce centrali a catturare tutti i miei sensi, Parallel Layes e Wings of the Ark, per certi versi simili, almeno nella concezione.

Così come nella vita si alternano momenti impetuosi, strabordanti di caos emotivo ad altri di calma piatta in uno spazio aperto senza confini tangibili. Le immagini del video a corredo di Wings, girato a New York da Francesco Maria Pepe, è la descrizione letterale di quanto appena detto; traffico cittadino vs onde del mare infrante su uno scoglio chissà dove, angoli metropolitani deturpati vs boccioli in fiore e ancora reti metalliche come senso di prigionia vs treni in corsa verso la libertà.

Di questo disco ho apprezzato il coraggio speso nella sperimentazione, la cosa che più amo negli artisti, le tracce lunghe non aiutano l’easy listening, tantomeno si può dire dell’incudine sospesa ad un centimetro dalla testa all’arrivo di alcuni stralci sonori ma i Svnth sono bravi a compensare con una vasta venatura romantica che spargono con grande maestria nei pertugi più bui. E’ un disco da ascoltare senza fretta, possibilmente in cuffia, possibilmente al massimo volume. Buon viaggio anime inquiete…

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Elisabetta Laurini
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