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Snow Patrol: recensione di The Forest Is The Path

Vi sono mancati gli Snow Patrol? Beh, sono tornati. The Forest Is The Path non deluderà i fedelissimi, quelli che una volta avremmo chiamato "lo zoccolo duro".

Snow Patrol

The Forest Is The Path

(Republic Records)

pop, brit-pop, power pop

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Vi sono mancati gli Snow Patrol? Beh, sono tornati. A sei anni dall’ultimo album, Wildness. Un secolo (se misuriamo il tempo in unità-millennial)!

Diamo per scontato, solo per un attimo, che fossimo tutti al davanzale ad aspettare il ritorno della “pattuglia”. Nel frattempo un paio di membri si sono persi nella neve: Gary Lightbody è sempre saldamente al comando, ora accompagnato da Nathan Connolly e Johnny McDaid.

Stando al gossip, proprio quest’ultimo è stato il motivo principale della dipartita del batterista Jonny Quinn e del bassista Paul Wilson, ma poi vai a capire.

Sta di fatto che ora gli Snow Patrol sono tornati alla formazione a tre delle origini, con Lightbody unico superstite tra i membri fondatori.

L’apertura è decisamente confortante per i fan. All è un classico pop raffinato in perfetto stile Snow Patrol, dalla struttura che più classica non si può: cantato sommesso e suadente sulla strofa / apertura (puntualissima) e primo ritornello intorno al minuto 01 / sospensione / ritornello / finale.

Se è una formula che funziona da sempre un motivo ci sarà, e alla band irlandese-scozzese portò parecchia fortuna circa vent’anni fa, quando la ultramega-hit Chasing Cars gli regalava il successo planetario frantumando ogni record di vendite. Da allora il mondo è cambiato parecchio. Quello della musica addirittura stravolto.

Mantenere lo status e gli standard, all’ottavo album, è un’impresa non da poco. Gli Snow Patrol fanno del loro meglio.

Sul beginning di The Beginning la voce di Lightbody ricorda quella del compianto Jeff Buckley, poi il ritornello apre, ed ecco la prima f-word dell’album (ne seguiranno una manciata).

Everything’s Here And Nothing’s Lost, potenziale prossimo singolo, ripete lo schema strofa/ritornello seguito sinora. Estremamente radio-friendly e stadio-friendly.

Your Heart Home è – giudizio personale – l’episodio più trascurabile dell’album. La sensazione è quella di una produzione forse troppo raffinata, ma, per il giudizio finale, mi affido a ripetuti ascolti: il secondo e terzo ascolto confermano la prima impressione. Al quarto ascolto premo skip.

Poi arriva This Is The Sound Of Your Voice e mi sorprendo a pensare: “il titolo si riferirà per caso alla voce di Buckley?”. A complicare le cose c’è la sensazione di aver già sentito la melodia della strofa da qualche parte*

Hold Me In The Fire è un altro potenziale singolo. Rapida e incalzante, con un perfetto ritornello sing-a-long e cronometro alla mano dura esattamente 4 minuti: cosa chiedere di più?

Years That Fall è la sorella (in) minore di Hold Me In The Fire. Più malinconica e riflessiva. “Mi ricordi un tempo che è passato” canta Lightbody “e quanto ho desiderato che durasse” Se l’album finisse qui, come direbbe il Poeta, “io non ci troverei niente da dire”. Anche perché da capire, qui, c’è rimasto davvero ben poco.

Il tema delle relazioni finite male o malissimo è stato ampiamente trattato, e per tenere vivo l’interesse bisogna andare a caccia di sfumature. Come “F**k Your Horizon”, ad esempio, l’incipit spiazzante di Never Really Tire. Il fantasma di Buckley aleggia sempre più presente. Del resto, se andate a curiosare un po’ sul tubo, troverete una cover salottiera di Halleluyah, pubblicata da Lightbody al tempo del lockdown, che la dice lunga.

These Lies, invece, punta tutto su pianoforte e voce. Intimista, minimale, dolente. Il falsetto e il vibrato ricordano… indovinate chi? Sì, esatto. Proprio lui. Se l’ascoltatore non era ancora stato “really tired” finora, alla lunga un po’ di stanchezza subentra, e se What If Nothing Breaks è quasi una sceneggiatura cinematografica con un tappeto musicale in sottofondo, Talking About Hope non avrebbe sfigurato su un album come Grace. (È stato già detto “Jeff Buckley”?)

Infine, il brano che dà il titolo all’album rappresenta l’essenza stessa della sovrapproduzione, con un finale corale che sembra scritto appositamente per accompagnare la band all’uscita di scena nelle esibizioni dal vivo. Proprio quando ti sembra che possa durare per sempre, si interrompe bruscamente. Tutto sommato potrebbe non essere un difetto.

The Forest Is The Path, tutto sommato, non deluderà i fedelissimi, quelli che una volta avremmo chiamato “lo zoccolo duro”. Al tempo della musica liquida è bene non darli per scontati, anzi è giusto coccolarli, dargli delle certezze, magari sussurragli: “Vi siamo mancati? Beh, siamo tornati”.

*era More Than The Ocean degli Snake Corps, ma non ho motivo di credere che ci sia del dolo…

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