Smashing Pumpkins
Aghori Mhori Mei
(Martha`s Music)
alterative rock
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Chi scrive questa recensione di Aghori Mhori Mei (un detto monastico il cui significato è “Senza Paura Nel Mio Cuore”) è sempre stato un fan degli Smashing Pumpkins anche quando non ha apprezzato in toto i loro ultimi lavori. Dopo Zeitgeist, ultimo loro album degno di nota, figlio di una reunion attesa dopo lo scioglimento nel 2000, si sono susseguiti dischi ambiziosi con canzoni a tratti emozionanti ma non indelebili, insomma non così impattanti come l’era fino ad Adore che ha conosciuto il successo planetario della band di Chicago.
Mentre davano alla luce Atum, Corgan, Iha e Chamberlin stavano lavorando ad una ventina di nuove canzoni con l’intenzione di tornare alle radici ma con la nuova versione di se stessi. Con l’uscita dal gruppo di Jeff Schroeder, Aghori Mhori Mei torna al classico album da dieci tracce da 45 minuti. La copertina nera è ispirata dalla fotografia scattata dalla sonda Cassini–Huygens che ritrae Titano, una delle lune di Saturno, dietro la cintura che circonda il secondo pianeta gassoso più imponente del Sistema Solare. Un titolo annunciato a sorpresa solo un paio di settimane prima dell’uscita in digitale, in cui le chitarre distorte sono le protagoniste assolute in un lavoro che anche nei mid-tempo ha un suono robusto.
Mi chiedo dove sia finito Shiny and Oh So Bright, Vol. 2 mai pubblicato, dato il modesto Volume 1 con un buon ritorno alle sonorità dell’ultima fase prima del declino, segno che Corgan è sempre partito con le buone intenzioni realizzando album con sempre qualcosa di incompiuto. Poi sono arrivati gli annunci di due doppi album, Cyr estremamente elettronico, e il presunto successore di Mellon Collie (detto da Corgan stesso), Atum, una pomposa Opera Rock anche qui infarcita di troppa elettronica, risultata indigesta a quasi tutti i miei conoscenti sconcertati da tracce pop come Steps in Time e Spellbinding o imbarazzanti come Hooray e Moss, lasciando appena in Empire, Harmageddon e Beguilded quella manciata di sferzate alternative rock che hanno tentato di indorare la pillola agli ascoltatori. Da una band che ha sfornato 3-4 album iconici in una sola decade, ci si aspetta non una certa continuità, ma qualcosa di meraviglioso ogni tanto, da Teagarden, lo si è preteso.
Le fiammate di una ripresa miracolosa della loro produzione si avvertono già con l’opener Edin, un brano ruvido di oltre 6 minuti che ricorda i lavori svolti su Gish e Siamese Dream: pennate pesantemente doom, riff granitici e improvvise pause con la voce di Corgan che crea tensione, leggeri accordi in sottofondo, pausa, Chamberlin che fa sentire le bacchette e poi via di nuovo con un riff ripetitivo e distorsori a piena potenza. Non mi sembra vero di quanto sto ascoltando, mi dico. Gli arpeggi dissonanti di Pentagram, altri 6 minuti abbondanti di linee goth toccanti, confermano che gli SP fanno sul serio, si sente che Corgan a questo giro è in buona vena, un pezzo sugli amori che non dovrebbero mai morire.
Il groove di War Dreams of Itself potremmo definirlo il fratello minore di Zero, inno criptico alle guerre che portano a strade chiamate “Disgrazia”. Who Goes There è la ballad upbeat dell’album incentrata sui ritorni a casa, sul credere più nell’altra persona che non nel “noi”. Brano dal ritmo sognante come Goethe The Fall, offrendo nella melodia eterea la consapevolezza di chi si rende conto di essere stanco di aspettare l’amore agognato. Il pianoforte in apertura di 999 addolcisce ancora la durezza dell’album, ma dura pochi secondi perché il muro sonoro si rilancia con una serie di riff e power chord alla Tool/Porcupine Tree, non ho dubbi che questo brano diventerà un classico ai loro concerti, ha quel riff tetro che ti rimane in testa e non ti stanchi di riascoltare.
Sia chiaro che la discografia precedente è sempre stata di discreto livello, ma mancava sempre quella vampata che ci ha fatto innamorare della loro prima parte di carriera. In Aghori abbiamo diverse variazioni sonore e cambi di tempo all’interno del disco, abbiamo le chitarre dannatamente rock e in ogni pezzo c’è un momento in cui si arriva ad un picco adeguatamente lirico. Ma non perfetto perché in alcuni punti sembra ci si perda nei volteggi acrobatici del songwriting un po’ incerto come in Sighommi (primo singolo estratto incentrato sulle bugie e sulle difficoltà delle relazioni) e il brano finale Murnau che colpisce per la bella melodia al piano, raccontando mestamente che viviamo e corriamo da soli, ma che nel mezzo la composizione non trova il giusto equilibrio, pur chiudendo un bell’album.
In un’intervista a Radio KROQ di Los Angeles, Billy Corgan ha detto che lui, Jimmy e James ora hanno tutti una famiglia felice con fantastici figli e, tornando a suonare nuove canzoni sulle linee di Siamese Dream, hanno raccontato dolori e sentimenti in maniera differente grazie alla saggezza maturata negli anni. Racconta che era andato a vedere la sua vecchia casa di quando era bambino e aveva subito degli abusi: il cartello in vendita recitava “Billy Corgan’s Childhood Home for Sale” e lui ha pensato di comprarla e demolirla. Ma è rimasto poi dall’altra parte della strada, sul marciapiede, cantando una canzone. Lo spirito di Aghori Mhori Mei è esattamente questo, rivivere il dolore del passato, ma con gli occhi di chi ha saputo passarci sopra alle sofferenze ed è andato avanti.
I testi sono come sempre sibillini, complicati da interpretare, una poetica da corredo alla musica che era riuscita meglio a farsi narrare in Mellon e Adore che altrove. E’ rabbia sonora. Sicarus strumentalmente mostra qualche lacuna mentre Pentecost, brano sul dolore necessario al cuore, e Murnau sono brani sentitamente orchestrali, il lavoro con l’elettronica è qui bilanciato e mai fastidioso. Io credo che Corgan dopo i tripli album in cui ha giocato con i synth ne abbia avuto abbastanza e sia stato divorato dalla necessità di far tornare protagoniste la sua chitarra e quella di Iha, ma anche di accontentare i fans che sono stati molto duri con le sue pubblicazioni che da ventanni non convincevano più, comprese le sue produzioni soliste, pur comunque sempre sold out del pubblico pronto a scatenarsi sui brani storici. E sicuramente l’aver messo insieme pezzi della sua vita dopo averla raccontata 30 anni prima, lo ha stimolato a ridipingere con suoni graffianti e pesanti le nuove canzoni.
Non è un album easy listening, Mellon, Siamese, Gish, la stessa Adore avevano un’orecchiabilità più immediata. Penso che se fosse uscito dopo Adore, questo nuovo lavoro degli Smashing Pumpkins sarebbe stato apprezzato ma non esaltato abbastanza come leggo in giro in questi giorni, segno che davvero la gente che ha amato gli Smashing Pumpkins non aspettava altro che un album di questo livello per perdonarli delle strade intraprese precedentemente.
Quindi un ritorno non tanto agli anni 90, con la potenza dell’alt rock e metal moderno, senza essere paraculi rifacendo se stessi. Ma tornando ad essere se stessi. Più adulti e probabilmente più sereni. Sono i Pumpkins che vogliamo.
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