Recoil + Sunroof
Roma, Circolo degli Artisti, 10 aprile 2010
live report
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Sold out delle grandi occasioni per il ritorno sulle scene di Alan Wilder e del suo progetto Recoil, che divide con Paul Kendall.
Non solo una serata per nostalgici dei Depeche Mode, ma anche per loro (per noi).
Ad aprire le danze, è proprio il caso di dirlo, una delle rarissime esibizioni dei Sunroof, ovvero Daniel Miller e Garreth Jones, padri fondatori della Mute Records e in buona parte responsabili – proprio con Wilder – del sound dei Depeche Mode periodo Construction Time Again, che dai Sunroof stasera viene de-constructed live, ovvero remixato in diretta.
Mentre sullo schermo scorrono le immagini del set fotografico che produsse la copertina dell’album, realizzato in Svizzera, gli “anzianotti” Miller e Jones maneggiano due laptop, un mini campionatore a qualche scatola effetti, trasformando il capolavoro dei Depeche in un lungo set tanto dance quanto sfizioso.
Schermo al centro, tavolo a destra per i Sunroof (sparito dopo il loro set) e tavolo a sinistra per i Recoil, che si portano sul palco anche loro due laptop con la mela, qualche scatola effetti e un synth Korg d’annata.
Grande eccitazione in sala, qualche truzzo di troppo e, in generale, grande costernazione per un set tanto emozionante quanto imprevisto, privo com’è stato di tutte quelle parti spettrali / ambientali che caratterizzano i Recoil.
In buona sostanza s’è trattato su un megamix in diretta, accompagnato da un ottimo visual.
Le canzoni dei Recoil ne escono stravolte, spesso irriconoscibili, ipertrofiche e stuprate. Preferendo la produzione più recente, i Recoil mettono in scena una specie di colonna sonora per un incubo post-atomico, punteggiato dalle immagini delle sculture di H.R. Giger (quello di Alien e dell’asta del microfono dei Korn). Ma anche e soprattutto un incubo industrial-techno, o l’unica musica possibile ispirata da una notte di sesso estremo. Quelle Strange Hours che danno il nome allo spettacolo, con un visual mai casuale, a tratti futurista, a tratti retrò, altre volte psico-folle, comunque sempre coerente con i suoni e con l’obiettivo di produrre una stimolazione multisensoriale (compresi capelli e vestiti che vibravano per le bordate di ultrabassi).
Never Let Me Down in versione AggroMix (ri)mette l’ipoteca di Wilder su quello che i Depeche Mode – grazie a lui – sono stati e probabilmente non saranno mai più.
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