The SixxiS
Hollow Shrine
(Glassville Records, 2014)
progressive rock
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Nati nel 2006 ad Atlanta, i SixxiS sono un quintetto prog-rock che ha pubblicato fresco fresco Hollow Shrine. Lo scorso anno erano riusciti ad avere una certa attenzione grazie all’Ep omonimo e sono stati invitati a far da spalla ai Winery Dogs, la superband formata da Kotzen, Sheenan e Portnoy, che li hanno voluti nel loro tour. Per questo disco si è scomodato David Bottrill alla produzione, lui che in passato ha gestito dischi di Peter Gabriel, King Crimson, Tool e Muse.
Con queste premesse mi sono messo all’ascolto del nuovo disco che si avvia con una grintosa Dreamers, che fa comprendere come le partiture di questo gruppo mostrino il fianco melodico grazie al gioco di qualche cambio di tempo e l’uso di un cantato pulito e di qualità. In Home Again i riffs scappano variegati tra venature eleganti ed alcuni stop and go, e il sottofondo sinfonico dona un tocco appassionante al brano.
Le dieci tracce di questo lavoro sono di lunghezza media, non ingolfandosi in lunghe sessioni sperimentali: si punta dritti al sodo alla canzone strofa-ritornello con un buon dispiego di energie nell’arrangiamento senza fraseggi intricati. In Forgotten Son la band si cimenta in un baroccheggiante pezzo in cui la chitarra ricama una struttura fatta di chiaroscuri e melodie bilanciate.
L’impressione è che si sia preferito minimizzare le sfumature più ambiziosamente creative, prestando poi l’attenzione al flusso melodico senza eccedere nei componimenti, realizzando brani brevi e scorrevoli che non inducano eccessiva monotonia nell’ascoltatore. Una risposta l’ha data Coke Can Steve, uno strumentale di 4 minuti che aiuta il gruppo a sfoggiare la loro abilità, agganciandosi al pezzo successivo, Opportune Time, proseguendo in un esercizio stilistico prog metal molto più disteso e onirico. Weeping Willow Tree chiude l’album con un brano di matrice acustica e malinconica.
Le influenze dei Sixxis derivano da band blasonate come Kings X, Rush, Muse, Soundgarden, System of a Down e Alice in Chains. Artisti con studi musicali alle spalle di ottimo livello, come il singer Vladdy che suona il violino e Cameron Allen che ha vinto una competizione di chitarra in Francia. Nonostante qualche scivolone in alcuni pezzi meno stimolanti come Out Alive e non così ribollenti di idee (Long Ago), il risultato globale è sicuramente apprezzabile, ma è necessario attendere una prova più matura che non sia condizionata dall’esigenza di acchiappare un pubblico.
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