Stella Diana
Alhena
(Raphalite Records)
shoegaze
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Gli Stella Diana sono una band partenopea, cantano in italiano, sono attivi dal 1998, hanno già prodotto quattro dischi, suonano shoegaze, hanno da poco siglato un accordo con una indie label anglo-canadese, Alhena è il primo di due EP che ripercorrono e fanno il punto sulla loro produzione passata, giusto il tempo per raccogliere le briciole seminate negli anni e mettere insieme le idee in vista del nuovo album e della nuova collaborazione internazionale.
Qualche tempo fa la band ha partecipato ad un disco tributo agli Slowdive e se la mela non cade mai troppo lontano dall’albero potrete facilmente immaginare cosa aspettarvi dalle tracce di questo EP: riverberi, chitarre dilatate, effetti che pettinano le voci, batterie caustiche.
Pare abbandoneranno il cantato in italiano nelle future produzioni; per il momento Alhena è un compendio di cantautorato italiano suonato con quell’attitudine di chi raramente alza gli occhi dalle proprie scarpe. I testi sono spesso ermetici ed in qualche occasione è difficile cercare di non farsi venire in mente il solito Cristiano Godano: sintomatico di quanto abbiano dato i Marlene Kuntz e la loro poetica alla musica italiana e di quanto sia difficile essere originali ed allontanarsi da certi meccanismi e stili di scrittura.
Molto interessanti le strutture strumentali, nonostante tradiscano, come già detto, un forte debito con la tradizione italiana. Probabilmente il cantato in inglese ed una maggiore visibilità all’estero permetterà al quartetto di ritagliarsi uno spazio personale dove queste peculiarità possono fare la differenza.
Shohet è un inizio con le paillettes sostenuto da tappeti nebbiosi di chitarre e dal basso in bella presenza che fa da architrave al cantato molto melodico. Caulfield è costruita su una struttura di crescendo che si susseguono con un’aura molto brit-pop. Bill Carson ha poco a che vedere con il western, tuttavia l’incedere arioso lo rende il brano più filmico del lotto, con il pathos che sale e scende ciclicamente come un susseguirsi di inquadrature. Mira è il brano più ’80s, con il basso martellante e ripetitivo a fare da perno e le chitarre space che gli girano intorno fino a diventare soniche.
Il vizio delle cover, che tanta fortuna fino a qui gli ha portato, non lo perdono e non si lasciano sfuggire l’occasione per proporne una in chiusura di questo lavoro sulla breve distanza. Piuttosto che risultare scontati nella scelta di uno qualunque dei brani simbolo della scena shoegaze anglofona, decidono di provare a districarsi con una hit dei Kula Shaker: Govinda è un mantra psichedelico che probabilmente fa un po’ a pugni col resto dell’EP, ma che risulta comunque compiuto.
Non ci resta che attendere l’uscita del secondo EP, che completerà questa sorta di best of in due parti, ma soprattutto della nuova produzione in senso stretto. C’è molta curiosità sul risultato che i campani riusciranno a traguardare forti di questa nuova opportunità. Noi tifiamo per loro!
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