Red Hot Chili Peppers
The Getaway
(Warner Bros)
funky, pop, rock
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Per cercare di fare qualcosa di diverso da quanto fatto in passato, i Red Hot Chili Peppers le hanno provate davvero tutte: hanno posticipato i tempi di realizzazione a causa dell’incidente di snowboard di Flea, che dopo essersi spaccato un braccio in cinque punti ha dovuto letteralmente reimparare a suonare il basso, quindi si sono affidati a un nuovo produttore, Danger Mouse e hanno incaricato del mixaggio Nigel Godrich, il sesto Radiohead.
Insomma, due da chiamare se vuoi dare una sferzata di “giovanilismo” al tuo lavoro. Diciamocelo, Kiedis e soci non sono più dei pischelli, e sebbene ci siano orde di giovani musicisti che dovrebbero imparare da loro, sono finiti i tempi dei calzini sui genitali e di quel funk rock che ha reso immortali pezzi come Give it away.
Ma invecchiare non è per forza un male, se sai farlo con stile, e i Red Hot in questo album sono a mio avviso riusciti a prendere una deriva più matura – più funky e meno rock – che però saprà dare i suoi frutti. In tutta sincerità, dopo I’m with you non mi aspettavo una risalita della china.
The Getaway suonerà per i fans storici come un CD noioso, un po’ cupo, chiuso in quello pseudo funky pop iper mainstream. Di sicuro potevano osare un po’ di più, soprattutto visti i collaboratori di cui si sono circondati e la freschezza/giovinezza di Josh Klinghoffer, ormai membro ufficiale del gruppo e non più semplice rimpiazzo di Frusciante. Tuttavia, il connubio che sono riusciti a raggiungere tra pop, rock, funky e quel tocco di embrionale elettronica che si sono recentemente concessi ci regala nel complesso un album più vario e fruibile del precedente.
Il basso di Flea non risente fortunatamente dell’incidente di percorso ed è sempre la spina dorsale del suono dei Red Hot Chili Peppers. Con Chad Smith creano una sezione ritmica fenomenale: basta ascoltare We turn red e Goodbye angels per rendersene conto. Keidis non osa più di tanto a livello vocale, ma questo in fondo non è un male, viste varie prestazioni live un po’ sotto tono del passato.
Dopo la title track, che segna un inizio decisamente in sordina, mi trovo a sposare l’assioma che vuole il secondo pezzo come quello più efficace: Dark necessities, primo singolo estratto, rende ancora meglio nella extended version, che non risente del taglio dell’assolo di Josh e di alcuni dettagli sonori di pregio. Su tutto il disco in generale aleggia un sentore ‘70s California style, solo un po’ più cupo, come in The longest wave o Sick love, di chiara ispirazione beatlesiana e con Sir Elton John al piano. Go robot, prossimo singolo annunciato, Detroit e This ticonderoga creano il trittico più interessante, con le influenze elettroniche della prima, il rock della seconda e un tocco di punk della terza.
Il finale approda a rive più sicure: Encore, brano soft molto orecchiabile, The hunter, un ottimo pezzo di chiusura intimista accompagnato da archi e tromba e Dreams of a samurai, ancora più d’atmosfera della traccia precedente, che nel primo minuto sembrerebbe quasi destinato a essere uno psichedelico strumentale.
The Gateway è un album che bisogna ascoltare dall’inizio alla fine più e più volte, senza preconcetti. Non sarà una pietra miliare della storia della musica, ma forse dovremmo smetterla di cercare per forza quello che non c’è (e forse non ci sarà più) e apprezzare l’evoluzione di una band che non si svende, non scende a patti con nessuno e non imita nessuno, ma prova a guardare avanti senza rimpiangere i bei tempi andati, restando fedele a se stessa.
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