Primavera Sound 2018
Barcellona, Parc del Forum, 30 maggio – 2 giugno 2018
live report
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Gli organizzatori del Primavera Sound: hanno avuto ragione loro
Le polemiche montate nei mesi scorsi sulla composizione del programma del Primavera Sound 2018 vedevano i “vecchi” frequentatori del festival sulle barricate, indignati dalla massiccia presenza in cartellone di star dei generi trap, hip hop e r’n’b. Indie-rockers perplessi, alla ricerca di motivi per non migrare verso il Mad Cool di Madrid, che ha una line-up da far girare la testa. Proprio agli organizzatori in conferenza stampa ho chiesto se vedono il festival madrileno come una minaccia e loro mi hanno risposto in assoluta tranquillità che… assolutamente no: spirito diverso, città diversa, periodo diverso, affermando che l’unico competitor del Primavera Sound è il Primavera Sound stesso.
E i numeri gli hanno dato ragione. La superficie su cui si svolge la manifestazione (la tranche principale) ormai è arrivata a 220.000 metri quadri, 59.000 persone presenti il primo giorno (31 maggio), 58.000 il secondo e 62.000 il terzo, a cui s’aggiungono i 25.000 accorsi per Belle & Sebastian (il 30 maggio) nella giornata che il festival regala alla città. Per non parlare del fatto che il pubblico arriva per il 60% da 126 Paesi diversi, facendo diventare il festival un volano economico per tutta la città.
Ma prima di scoprire in conferenza stampa che hanno avuto ragione loro… bastava dare uno sguardo al palco Ray Ban durante il concerto di Vince Staples, cosa che ho fatto al termine del concerto di Nick Cave: non poteva cadere uno spillo senza colpire un corpo umano, almeno 20.000 persone fomentate da bordate di ultrabassi e profluvi di liriche rappate, ragazzine inglesi che di corsa tentavano di raggiungere il palco cantando a memoria il brano che arrivava da laggiù e in platea la folla in delirio.
Al di là dell'(im)prevedibile successo (anche) di quest’anno, probabilmente quella del 2018 del Primavera Sound è stata un’edizione di transizione, in cui s’è coccolato il pubblico più su d’età con certe proposte musicali, aggiungendo alcune comodità e portando chef stellati all’interno del Parc del Forum. Allo stesso tempo gli organizzatori stanno gettando le basi per una nuova fanbase, che a Bjork preferisce i Migos (che hanno perso l’aereo e che in quattro-e-quattrotto sono stati sostituiti col campione del grime Skepta), o che se ne infischia di tutto e spende buona parte delle sue 18 ore di musica giornaliera ininterrotta nell’area Primavera Bits, dedicata alle sonorità elettroniche in tutte le sue declinazioni.
I giganti del Primavera Sound 2018: Nick Cave, Mogwai, Slowdive, Ride
Ogni anno mi vedo costretto a (ri)fare la solita premessa: in un festival con 15 palchi e 250 artisti in 3 giorni… si fanno scelte dolorose, si pena per le immancabili sovrapposizioni di orari, si cambiano i programmi in base alla stanchezza, si fanno i calcoli con i gusti personali, l’estro del momento e con gli artisti che si è già visti in azione (che si vogliano rivedere o di cui si è già sazi). Da qui in poi, quindi, troverete note personalissime, una line-up nella line-up che ha costituito il mio festival. Se leggerete altre dieci recensioni dello stesso festival… probabilmente io vi parlerò di artisti di cui altri non vi parleranno e viceversa.
Dal mio punto di vista, vincitore assoluto del Primavera Sound 2018 è Nick Cave. Il Re Inchiostro è un gigante, non c’è certo bisogno di ribadirlo, ma raramente m’era capitato di vederlo in azione così pieno di dolore e allo stesso tempo di rabbia, alla continua ricerca di una complicità col pubblico che puntualmente arriva attraverso la sua musica, ma anche attraverso un contatto fisico raggiunto attraverso delle passerelle laterali montato ai lati del palco Mango e che lo portano letteralmente tra le braccia dei suoi fan. Una scaletta niente affatto banale, in cui pesca anche Come into my Sleep (dall’album di rarities e suonata l’ultima volta dal vivo nel 2005) e in cui l’ultimo album, Skeleton Tree, viene affrontato solo con 3 dei 14 brani proposti stasera . Tutto viene reso più cattivo, From Her to Eternity e Red Right Hand su tutte. La scaletta è nel photo-album, in questa stessa pagina.
Cercando di driblare i palchi dei trappisti (sigh) allestiti solo con computer e microfoni, mi sono quindi regalato una tripletta di chitarre in distorsione, feedback, fuzz, atmosfere shoegaze, soluzioni squisitamente brit e derive post-rock.
Timoroso per la cocente delusione dello show-case a sorpresa dello scorso anno, in cui presentarono tutti gli allora inediti brani di Every Country’s Sun, i Mogwai hanno fanno tremare il prato antistante il palco Apple Primavera. Con una nuova batterista, che sostituisce (momentaneamente?) il titolare affetto da problemi cardiaci, con un terzo chitarrista a dargli man forte, si sono ripresi lo scettro di campioni del post-rock a forza di atmosfere dilatate, di labirinti chitarristici e delle immancabili esplosioni di feedback e noise, che puntualmente infiammano la platea con la monumentale Mogwai Fear Satan. 11 brani in scaletta, di cui ben 5 dall’ultimo album, passato in sordina e che questo punto urge essere riascoltato con maggiore attenzione.
Rapido spostamento e in men che non si dica mi trovo nell’Hidden Stage, quest’anno ben più grande, all’aperto e ad accesso limitato. Senza pudore salto la lunga fila sfoderando il mio accredito stampa (che mi salverà anche in seguito, ma… ve lo racconto dopo) e sono dentro. I Ride per circa un’ora hanno dimostrato come siano da considerarsi come i veri padri dei Mogwai e come melodie in pure stile brit-pop possano convivere felicemente col noise. Immensi.
Quando li rividi in azione nel 2014 pensai: ecco la solita reunion solo per fare cassa. E invece gli Slowdive nel frattempo hanno prodotto anche un altro ottimo album di inediti. Nel fido palco Primavera (il “vecchio” palco principale), Neil, Rachel e soci ci stupiscono e si lasciano stupire. Proprio Rachel, raggiungendo la sua postazione a inizio concerto, guardando la sterminata platea pronta ad accoglierli, si lascia scappare un wow di stupore misto a soddisfazione. Fiducia ricambiata da magici intrecci di chitarre, basso pulsante e una sezione ritmica spesso minimalista ma sempre efficace: insieme ci fanno volare nello spazio e la conclusiva Golden Hair (cover di Syd Barret) ci consente di allontanarci dopo un’ora di concerto rimanendo ancora in orbita.
La musica elettronica al Primavera Sound 2018: James Holden & The Animal Spirits, Arca, Liminal (Sigùr Ròs side-project)
Ho saltato per un tragico accavallarsi di orari gli Art Ensable of Chicago, ma con le dovute misure e proporzioni ci pensa James Holden e i suoi Animal Spirits a portare un po’ di jazz al PS18. E lo fa a modo suo, ovviamente. Ovvero affidandosi a percussioni + batteria + tromba + sax, musicisti chiamati ad impreziosire le sue trame IDM leggermente fricchettone con derive avant e impro jazz. Il giochino stupisce all’inizio, salvo mano a mano mostrare la corda di uno schema un po’ troppo insistito. Peccato veniale di uno spettacolo comunque interessante, spesso divertente e con alcuni momenti davvero alti.
Al venezuelano Arca (anche al lavoro sia in studio e sia dal vivo con Bjork) è bastato davvero poco per allontanare parte del pubblico accorso a notte fonda ad ascoltarlo al palco Pitchfork. Lo conoscevamo per i suoi esperimenti di musica concreta e ambient, lo troviamo travestito da donna alle prese con un vero e proprio show in cui impazzano ritmi improbabili, rumori e labirinti digitali ostici ai più. Anche a me.
Liminal Soundbath è un’esperienza multisensoriale i cui protagonisti sono Jónsi (dei Sigùr Ròs), Alex Somers (suo compagno di vita) e Paul Corley. Doppio spettacolo per i nostri, venerdì e sabato, in quello che fino allo scorso anno era l’Hidden Stage, ora Wharehouse: una specie di ex garage-caverna in cui durante il festival si sono alternati showcase di etichette elettroniche, Warp in testa, con il mostruoso impianto audio quadrifonico della B&W (ve ne parlammo qui).
Anche qui fila pazzesca per entrare, sold-out, in tantissimi attendono che qualcuno esca per prendere il suo posto. Anche qui… salto la fila e sfodero l’accredito stampa. E come per magia sono subito dentro. Ad accogliermi un antro buio come la pece, illuminato saltuariamente da deboli fasci di luce. Jonsi, Alex e Paul si intravedono raramente e si capisce che sono impegnati a voce, laptop, chitarra, manipolazione di nastri e chissà quale altra diavoleria. Per partecipare a Liminal Soundbath bisogna sdraiarsi a terra, su stuoie e cuscini appositamente predisposti, per meglio lasciarsi trasportare da un flusso sonoro di 75 minuti in cui suoni della natura sono disturbati da glitch digitali, pulsazioni e altro ancora. Parlavo di Liminal come di uno spettacolo multisensoriale: fantasmi in carne ed ossa, 3 eteree fanciulle coperte da veli, in diversi momenti sono state chiamate a passare in mezzo al pubblico per diffondere odori e profumi, ad aumentare la dimensione onirica e un’esperienza totale e totalizzante, in cui la vista è chiamata a mettersi da parte a vantaggio di altri sensi: udito, olfatto, coscienza. (P.S.: i più attenti avranno riconosciuto frammenti di Go, l’album solista di Jonsi, e di Von, l’album ambient dei Sigùr Ròs).
Il garage-punk-rock al Primavera Sound 2018: Idles, Oblivians, DobleCapa
[amazon_link asins=’B07DKH6MD5′ template=’ProductAd’ store=’rock02-21′ marketplace=’IT’ link_id=’ adbdb536-ac67-11e8-ad7c-99c8e9b15ec0′]È divertente verificare come il garage rock (e il garage-punk-rock) siano interpretati diversamente in luoghi geografici assai distanti tra loro, pur conservandone lo spirito. Ed è il piccolino Adidas Stage a ospitare alcuni dei musicisti più chitarrosi della rassegna.
Gli inglesi Idles sono delle vere e proprie macchine da guerra, macinano riff su riff e non si risparmiano, stage diving compresi. Il pubblico da parte sua dà fondo alle ultime energie rimaste a tarda ora e balla, salta e poga come se non ci fosse un domani.
Gli americani Oblivians (i più punk della terna) pagano due volte pegno: la sovrapposizione con i Dead Cross di Mike Patton (ascoltati di sfuggita, sono un vero e proprio attentato ai padiglioni auricolari di chiunque!) e con gli Arctic Monkeys (di cui mi racconteranno come di uno show penalizzato da volumi troppo bassi). Ma anche perché sono solo in tre, senza quindi un cantante puro che si dedica esclusivamente al pubblico. Ma fanno il loro sporco lavoro e lo fanno pure bene.
I madrileni DobleCapa (guardate il loro video, ad alto volume, mi raccomando) sono invece di altra pasta. Rendono il blues una cosa malata e se si lasciano solo le orecchie ad ascoltare la CigarBox (una sorta di chitarra) di Mario e la batteria martellata di Arianne: sono … solo in due ma sembrano molti di più. Divertentissimi, sono al primo album e ci auguriamo che la Aloudmusic (l’etichetta spagnola che li pubblica) riuscirà a dargli la visibilità internazionale che meritano.
Il Primavera Sound 2019: 30 maggio – 1 giugno
otrei parlarvi ancora della magia tra flamenco e fandango del Capullo de Jerez, dell’energia degli Yonaka (da tenere d’occhio), dello sconforto nell’appurare quanto siano soporiferi i Cigarettes After Sex, di come mi piacerebbe approfondire i Grizli Bear e Jay Som, di come le Warpaint stiamo pericolosamente ripetendo se stesse, di come La Bien Quierida non ha senso al di fuori della penisola iberica, dei concerti carini ma non entusiasmanti delle ritrovate Breeders e dei loro consanguignei Belly, di…
Le date del prossimo Primavera Sound già sono state annunciate, la parte principale si svolgerà da giovedì 30 maggio a sabato 1 giugno 2019 e mercoledì 6 giugno 2018 per 48 ore verranno messi in vendita biglietti a prezzo ridotto. A buon intenditor… poche parole.
Guarda il photo-album del Primavera Sound 2018
(click sulle miniature per ingrandire)
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