Paul Weller
Sonik Kicks
(Cd, Island)
rock, brit-pop, mod
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Paul Weller torna con la sua undicesima fatica solista e prende sonoramente a calci il suo periodo “classico” (che con una certa approssimazione va dal ritorno sulla scena con omonimo album ad As is now) nonché lo stato attuale in cui versa il rock britannico.
Sonik Kicks si veste di una abbagliante copertina che trasuda postmodernità, mescolanza e confusione di generi e un impatto decisamente psichedelico. The Modfather, in impeccabile doppiopetto pinstripe cucito da mani sapienti in Savile Row, sembra assorto all’interno di un accecante selva di colori e raggi laser che ricorda la saga di Star Wars.
Sulla breccia dal lontano 1977, immerso da sempre nei principi estetici e culturali del modernismo, attraverso il suo catalogo ormai sterminato Weller ha continuamente cercato di coniugare il filone del classico rock britannico dei favolosi sixties (Who, Kinks, Small Faces, Beatles, Zombies ecc.) con la grande musica nera statunitense dello stesso periodo. Non ha mai esitato tuttavia a imbarcare nuove influenze, confrontandosi e traendo linfa da generi musicali emergenti come farebbe ogni autentico appassionato di musica, adottando soluzioni rischiose e innovative che talvolta si sono tradotte in svolte balzane o apparentemente incomprensibili. Chi avrebbe avuto il coraggio di sciogliere i Jam al culmine della loro progressione? E quale musicista, prendendosi una sbandata per la house proveniente da Chicago, avrebbe concepito un disco di rottura e probabilmente in anticipo sui tempi, non pubblicato dalla casa discografica decretando di fatto la fine degli Style Council?
Da questo punto di vista Sonik Kicks risulta affatto coerente con la storia, l’irrequieta creatività di quest’uomo che alla soglia delle cinquantaquattro primavere, proprio non ne vuole sapere di rimanere nel cantuccio confortevole che il suo profilo e la sua reputazione gli potrebbero garantire soprattutto nella Vecchia Albione. Bisogna andare comunque avanti, sembra dire il vecchio Paul,e questa volta non si è fatto mancare davvero nulla: sulle solite e solide fondamenta di consumato song writer di scuola brit ora si innestano una certa psichedelia, eruzioni noise, un chiaro tributo alla new wave (Joy Division e il Bowie del periodo berlinese), fendenti corrosivi di kraut rock e addirittura echi di shoegaze (My Bloody Valentine).
La mano del coproduttore Simon Dine (al terzo lavoro con Weller dopo 22 Dreams e Wake up the Nation) si fa sentire in maniera decisa: strumenti che irrompono e divengono interferenze, suono grezzo e stratificato, loop e tracce ritmiche si fronteggiano nel perimetro di una ragionata confusione.
L’album è pervaso da un atmosfera ruvida, nervosa e estraniante nella quale le tracce galleggiano rimanendo abbastanza slegate tra loro e la sensazione è che nessuna di esse sia destinata a toccare quelle vette memorabili che consentono a un brano di vivere a lungo al di fuori del proprio contenitore.
In altri termini: inutile cercare, qui non c’è nessuna Wild Wood. I pezzi sono quattordici di cui due strumentali (Sleep of the serene e Twilight). Green è in perfetto stile krautrock con un cantato che rimanda a Lou Reed. The Attic, che ospita Noel Gallaher è più vicina al canone di Weller, ma si ritorno al krautrock spinto con Kling I Klang (almeno nel titolo un omaggio ai Kraftwerk?).
Intensa By the Waters, che si poggia sugli archi di Sean O’Hagam e sulla chitarra di Ibrahim Aziz (ex Stone Roses e Simply Red ). Ironica e brit That Dangerous Age, con tanto di coretti e riflessioni sulla condizione di uomo di mezza età. Study in blue, cantato con la neo moglie Hannah Andrews, è un brano di atmosfera i cui convivono dub e bossa nova e che ricorda gli Style Council. Dragonfly ha Graham Coxon all’organo, un brano di chiaro stampo psichedelico anche se un po’ irrisolto. When Your Garden’s Overgrown: una melodia alla Kinks sovrastata da un oceano di effetti elettronici con il fido Noel al basso.
Around the Lake è il primo singolo, dell’album piglio new wave ma un po’ monocorde. Drifters, scritto con Steve Craddock (Ocean Colour Scene e unico superstite della precedente band di Weller), è un brano davvero curioso in cui convivono flamenco (!), folk, psichedelia e i soliti effetti elettronici. Paperchase – scritto in memoria di Amy Winehouse – è un gran bel brano ma ricorda in modo imbarazzante alcune cose dei Blur. Chiude Be Happy Children a metà tra la soul ballad e la cantilena resa tenera dalle voci della figlia Leah e del figlio Mac.
Sonik Kicks è un lavoro composito e multiforme, che riparte dal solco tracciato da Wake up the Nation, vale a dire l’immediatezza e l’urgenza espressiva calati nella nuova frontiera della sperimentazione. Nel suo insieme è un album che non sembra completamente centrato, pare rispondere piuttosto ad un esigenza di rinnovamento e vuole (perché no?) stupire e spiazzare.
Senza dubbio bisogna riconoscere che siamo di fronte ad un musicista mai domo, che pur vantando una carriera leggendaria ha ancora voglia di rischiare, di spendersi e di esplorare sentieri nuovi e al contempo insidiosi. E tutto questo merita rispetto e ammirazione.
P.S.: questa recensione di Sonik Kicks riguarda la standard edition del disco, che è disponibile anche in edizione deluxe con un secondo Cd, oltre che in una versione con in aggiunta un Dvd. La versione in digital download, inoltre, ha una tracklist diversa ancora.
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