Matt O’Ree Band
Brotherhood
(Therewolf Records)
rock-blues
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Probabilmente alla maggior parte di voi il nome Matt O’Ree Band non dirà assolutamente nulla. Giacché rischiate seriamente di non sapere mai dell’uscita del loro nuovo album Brotherhood. E questo, credetemi, sarebbe un peccato mortale.
E qui si dovrebbe iniziare il solito discorso sulle macerie dell’industria discografica, sulle ragioni –a mio modesto parere più sociologiche che non di mero marketing- di un’inflazione dell’offerta musicale che inevitabilmente ha portato una grossissima parte del pubblico a scindere la componente emozionale che lo lega a taluni artisti e a perderla definitivamente, come la “zavorra” di uno shuttle che nessuno capisce più dove stia andando.
Oggi produrre un disco e distribuirlo in rete possono farlo gli U2 ma anche io, e purtroppo in molti alimentano la statistica di questo assioma.
E anche i MOB non sfuggono a questo perverso schema delle cose, intrappolati da anni nella scena underground della Jersey Shore, accogliente come un cuscino caldo che ha preso la forma ma che, forse, iniziano a sentire un po’ stretta.
Qualcuno probabilmente ricorderà Matt O’Ree come chitarrista live dei Bon Jovi, con cui ha condiviso l’ultimo trionfale tour negli stadi. Eppure il talento sopraffino di questo nuovo guitar hero, il cui unico termine di paragone che mi salta alla mente è quello con Stevie Ray Vaughan, continua a rimbalzare dallo Stone Pony al Wonder Bar, dalle radio locali all’Asbury Park Press, passando per qualche opening act di prestigio (Blue Oyster Cult, Deep Purple, Lynyrd Skynyrd), ma restando sostanzialmente disperso in quello sconfinato mare affollato di naufraghi che è, appunto, l’attuale panorama musicale.
Il sound della band, intenso e grezzo, che io definirei “allo stato puro”, è stato catturato splendidamente in quello che è diventato ormai da due anni uno dei miei CD preferiti, Live in Denver, e che vi invito ad ascoltare per farvi un’idea di quanto magnifici siano i pezzi del gruppo, il suo affiatamento e quello che è il suo background, che trae ispirazione da gente come Jimi Hendrix, Cream, Led Zeppelin, ZZ Top e così via, capito il genere no?
Il nuovo Brotherhood è una sorta di all in che arriva dopo anni di travaglio passati anche per un fundrising e che, grazie a una produzione brillante affidata a Bruce Buchanan, modernizza quel sound cercando di renderlo appetibile a una platea più vasta ma senza snaturarne l’essenza.
Partiamo dai featuring? Inevitabilmente sì.
Il primo singolo, My Everything Is You, è stato scritto da Matt insieme a David Bryan, storico tastierista dei Bon Jovi, che lo ha anche prodotto. E’ un pezzo pazzesco, forse un po’ atipico per i MOB, con un refrain che ti entra in testa come un martello e l’Hammond che rimane sullo sfondo di un arrangiamento impeccabile e molto al passo coi tempi. “Matt è un musicista di enorme talento e un grande amico. E’ stato un piacere scrivere e suonare nell’album e supportare la band in ogni modo possibile”, ha detto Bryan.
E poi c’è Black Boots, riproposta in un duetto con Mr. Bruce Springsteen che fa rizzare i peli al mio iPod nano e che per i fan del Boss sarà l’ennesima chicca da collezione, peraltro impreziosita da un assolo di chitarra elettrica incendiario che lascerà a bocca aperta i suoi appassionati meno attenti. Questo brano era presente anche su Live In Denver e un confronto tra le due versioni è certamente un oblò inaspettato che permette di sbirciare dentro questo nuovo corso del gruppo.
Il riff iniziale di It’s Gonna Be vi farà balzare dalla sedia ed è solo il preludio di un pezzo che vi delizierà letteralmente.
Così come gli otto minuti abbondanti di Leave Your Light On che sembrano piombare da un’altra epoca musicale sotto le sembianze di una ballad che fa perdere il sonno, con David Bryan nuovamente al piano e con un unico imperdonabile difetto: perché dura soltanto 8 minuti e nove secondi?
Born Under A Bad Sign è fra tutti, probabilmente, il brano in cui riconosco maggiormente il mood compositivo di Matt, certamente legato a quelle radici di cui va tanto fiero rafforzate dalle centinaia di gig in riva all’oceano.
Saints And Sinners è un altro brano recuperato a nuova vita, in cui merita una citazione di eccellenza la batteria di John Hummel che, oltre a essere tecnicamente stratosferico pur senza mai indulgere nella magniloquenza (non so voi, ma io sono annoiato dai virtuosismi strumentali fini a sé stessi, ritenendoli più adatti agli spettacoli circensi che non a quelli rock), ha raggiunto un suono che mi ricorda molto da vicino colui che credevo essere il Dio irraggiungibile delle pelli tirate, Sua Maestà Kenny Aronoff.
L’arpeggio acustico che apre Awkward Silence lascia spazio a una vocalità più matura di Matt, che mai si era espresso su questi livelli e che ricama una melodia raffinata molto vicina ai migliori Bad Company, per coloro che amano i paragoni a tutti i costi.
Don’t Ask rialza subito i ritmi mentre la traccia numero dieci, che si intitola Ten, potrebbe essere un estratto di uno dei tanti meravigliosi album rock che hanno impreziosito i nostri anni Ottanta, ma con una qualità che avrebbe sbaragliato la concorrenza di centinaia di band di capelloni.
Don’t Dance e December Gray (terzo e ultimo cameo di Bryan) chiudono un lavoro maestoso, a tratti quasi irreale.
Come altro definire Brotherhood? Una perla tra migliaia di palline di plastica bianche, una benedizione del tutto inattesa e insperata per noi nostalgici della vera musica, una speranza per il futuro e una testimonianza che speriamo non rimanga solo un geroglifico sulle pareti di una grotta.
L’album è in vendita su iTunes e, in versione autografata, sul sito ufficiale www.mattoree.com.
Se però vi piacciono i talent-show, gli orsetti di peluche e gli sbarbatelli pseudo alternativi col cappellino da baseball di traverso be’, non compratelo, perché non è roba che fa per voi.
Il rock è una cosa seria, è ancora vivo, e non molla di un millimetro.
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