Mark Lanegan
Blues Funeral
(Cd, Bb)
blues, rock d’autore, alt folk
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Gli psicologi dicono che chi s’innamora di una persona affetta da alcolismo o dipendenza pesante, tende a sviluppare la stessa dipendenza da quella persona e a trasformare ogni briciola che gli viene concessa in una dose di cui non può più fare a meno.
Del passato di Mark Lanegan si sa. Ed ecco spiegato perché esistono persone che, come me, non possono vivere senza la loro dose laneganiana giornaliera.
Faccio parte di quel nutrito manipolo di persone che ha trattenuto il fiato dal 2004, data dell’uscita di Bubblegum, ultimo disco solista di Lanegan, in attesa di quello che è in arrivo il 6 febbraio, a distanza di 8 lunghissimi anni: Blues Funeral.
Per fortuna in questo lasso di tempo Mark è stato tutt’altro che inattivo e ha collaborato praticamente con chiunque: con i Queen of the Stone Age (Lullabies to Paralyze, 2005 e Era Vulgaris, 2007), con Isobel Campbell (l’EP Ramblin’ Man, 2005, Ballad of the Broken Seas, 2006, Sunday at Devil Dirt, 2008, l’EP Keep Me In Mind Sweetheart, 2008 e Hawk, 2010), con i Soulsavers (It’s Not How Far You Fall, It’s the Way You Land, 2007 e Broken, 2009), con i Gutter Twins, insieme a Greg Dulli (Saturnalia, 2008 e l’EP Adorata, 2008) per citare solo gli esempi più rilevanti.
E ovviamente, per la gioia nostra e della nostra Lanegan-dipendenza, è stato impegnato nei relativi tour, quindi ci è toccato sentirlo cantare almeno un paio di volte l’anno, anche in suggestive, inedite e intimistiche versioni acustiche.
L’impressione era che Mark non avesse voglia di rimettersi completamente in gioco come solista, tanto che ha più volte annunciato e rimandato l’uscita del disco.
E così Blues Funeral non sembra il prodotto di 8 anni di lavoro. È un disco ricco di collaborazioni (Josh Homme, Greg Dulli, Jack Irons) che ha il marchio di Lanegan un po’ dappertutto, a partire dai testi così foschi e pieni di pioggia, acque torbide e lune grondanti sangue, per continuare con quella sua voce da trapano emotivo che trapassa da parte a parte, ma che lascia ancora irraggiungibile il ricordo della sporca perfezione cosmica di un capolavoro come Field Songs o quella torbida di Bubblegum, per citare soltanto due tra gli ultimi.
Non tutte le canzoni sono da amore a primo ascolto, per chi ha in mente quei modelli (per Harborview Hospital non sono bastati nemmeno venti ascolti). Blues Funeral resta però un disco in cui la voce cavernosa e da alluvione celeste di Lanegan (“muddy water/celestial flood”) ha ancora molto da dire, anche su basi e composizioni spesso ridotte volutamente al minimo, ormai molto lontane dagli echi graffianti dei vecchi Screaming Trees (a parte Riot In My House, un brano di amabili rivolte domestiche, con topi che scappano per casa come nei migliori cartoon, o Quiver Syndrome).
Il primo singolo, The Gravedigger’s Song, parte impennando, con un giro di batteria serrato che diventa ipnotico e ricorda certi attacchi alla QOTSA e delle chitarre allucinate in controcanto che sembrano latrare (come non farsi coinvolgere da un amore fatto di denti di piranha, un becchino che scava sotto una pioggia battente e dei boccioli di magnolia che fioriscono e appassiscono nello stesso istante?). È davvero da perderci la testa.
Il ritmo si smorza e si fa sentire più forte l’influsso elettronico e l’atmosfera blanda alla Soulsavers in Bleeding Muddy Water, una litania che sembra tenere fede alla cerimonia funebre del blues promessa dall’intero album.
Poi parte un bellissimo giro di chitarra in controtempo, folk, western, evocativo: Grey Goes Black, con un crescendo di pessimismo dark, ha la stessa base di Burning Jacob’s Ladder e si propone come riscrittura del brano che Lanegan ha lanciato a inizio 2011 per un videogioco. Mi sfugge il perché, ma l’importante è avere un altro brano da consumare nell’ascolto. E poi mi piace l’idea del ripensamento. Quasi un’ammissione di colpa.
Segue St Louis Elegy, che riprende le atmosfere soffuse e sofferte di un uomo in preda a una crisi mistica addomesticabile con lacrime che come alcol ubriacano. E la sua vibrante voce spicca su cori alla Morricone (Josh Homme?), un hammond di fondo e una chitarra solitaria come un uccello notturno. Magistrale.
Ode To Sad Disco, sui ritmi di una discodance un po’ sbronza, da finale di festa, propone un testo piuttosto cupo. All’inizio questa canzone mi risulta incomprensibile. Poi mi viene in mente la tristezza delle luci al neon delle pizzerie di provincia, e credo di capire (ma forse sbaglio).
Phantasmagoria Blues in un’atmosfera acquosa di fallimenti, ammissione di inadeguatezza e amori sbrindellati riempie di amara dolcezza.
Leviathan è una delle più belle tracce dell’album, con gli strumenti usati come lamenti quasi umani a fare da contraltare a una preghiera volta a perdonare forse le colpe dei peggiori, anche le nostre.
Deep Black Vanishing Train, la penultima traccia, con un’altra atmosfera e un altro testo, ha praticamente la stessa base di Mirrored (uscito come singolo di Bubblegum con Hit The City e Mud Pink Skag). Eppure è Lanegan all’ennesima potenza, con una voce sussurrata che squarcia le budella.
Insomma, forse mi sarei aspettata qualcosa di più e di diverso, ma scelgo di fare come con certi film inquieti che ti vengono in mente dopo giorni e giorni invece di appagarti subito: voglio far lavorare dentro i brani. Chissà che non scopra, tra un mese o due, che non posso più vivere senza. Tanto so che accadrà comunque.