Lucio Corsi
Altalena Boy / Vetulonia Dakar
(Picicca)
canzone d’autore
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Un doppio EP, uscito a metà gennaio, è il nuovo lavoro di Lucio Corsi. A dire il vero Vetulonia Dakar era uscito già qualche tempo prima, ma la produzione dei cinque nuovi brani che compongono Altalena Boy ha fatto ben pensare al toscano ed al suo entourage di unire i due lavori in una nuova edizione. Le differenze sono sostanzialmente legate alle orchestrazioni: quasi esclusivamente chitarra e voce il primo, mentre il secondo arrangiato e suonato con un piglio più strutturato. La penna del ventenne, invece, non lascia intravedere alcuna soluzione di continuità.
Che Lucio Corsi faccia di tutto per assomigliare al Bowie di Aladdin Sane non è difficile intuirlo. Non è solo per la pettinatura, la magrezza inverosimile, l’abbigliamento dandy. Non è neppure per il leitmotiv spaziale di Altalena Boy (il secondo EP) o per l’attitudine spacey di Vetulonia Dakar (il primo dei due). E’ che alcune progressioni armoniche (Migrazione Generale Dalle Campagne Alle Città), alcuni arrangiamenti (Altalena Boy), alcune linee melodiche (Dinosauri), sembrano composti seguendo un libretto di istruzioni.
I testi hanno, invece, una struttura che non può non riportare alla mente Dario Brunori e Rino Gaetano. Manca però l’appeal dei calabresi e la loro capacità di raccontare fotografie sbiadite e dolce-amare.
Lucio Corsi punta tutto sull’ironia ed il nonsense. Gioca con la sua aria da strampalato. Riesce a mettere a segno qualche sprazzo di compiutezza, qualche verso che prova a rimanerti in testa, ma sono pochi i punti in questo modo guadagnati. Quello che rimane di queste canzoni è più che altro l’atmosfera confusa da bar di paese, le immagini bizzarre, le storie inverosimili. Ma è tutto fuori fuoco, dai contorni poco definiti.
Anche egli sembra esserne consapevole (ed è già qualcosa, come dice lui) e quando declama “una frase così in questa canzone non ha alcun senso”, sembra accorgersi che non è l’unico verso del lotto a sembrare fuori posto. Corsi è un menestrello che scrive filastrocche più che canzoni vere e proprie: personaggi con la pancia e la testa di cocomero che hanno fame di cocomero e si prendono a morsi da soli, vangeli che parlano di arbitri e grattacieli, scioglilingua recitati velocemente come quel “liberediviverelalorobrevevita”.
Ma proprio questa è, probabilmente, la chiave di lettura per comprendere il mondo di Lucio Corsi; desistere dalla voglia di comprendere il perché di iperboli, sineddoche, metafore, metonimie, perifrasi, che sembrano capitate lì per caso.
Invidiare la spensieratezza di questo ragazzo toscano, trapiantato in una Milano veloce ed affollata, che spaventa e che confonde, è facile. Ma Lucio non è Jannacci, che lo strampalato lo faceva perché Milano ce l’aveva nelle tasche e che nella testa aveva un mondo.
La giovane età del toscano gioca tutta a suo favore e forse, queste dieci tracce, sono ancora troppo poche per poterci raccontare qualcosa di più su di lui e la sua poetica. Mancano ancora le chiavi di volta, le variabili incognite che spiegheranno e daranno un senso a tutto quello che abbiamo fin qui ascoltato. Mancano ancora i colori ai bozzetti tracciati a matita, mancano le sfumature per dare profondità alle curve, mancano le ombre per esaltare le luci.
Maestri e riferimenti sembra li abbia scelti tra i più grandi e questo può voler dire solo una cosa: il giovane cantautore non ha paura di lavorare sodo e costruirsi un percorso su misura per se e la sua chitarra. Auguriamoci, tutti, che possa darci tra poco in pasto un nuovo secchiello di canzoni. Potremmo scoprire un talento geniale nascosto dietro a quei lunghi capelli arruffati.
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