Low
C’mon
(Cd, Sub Pop)
slowcore
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I Low sono una delle più importanti realtà della scena slowcore anni ’90 made in U.S.A., forse la più importante assieme a band come Red House Painters e Codeine. Una carriera quasi ventennale cosparsa di incredibili successi (come il loro meraviglioso debut album I Could Live In Hope) e di illustri collaborazioni (il bootleg con i Godspeed You! Black Emperor, Do You Know How To Waltz?, del 1998 e l’album In The Fishtank 7 con i Dirty Three, del 2001).
Su queste collaborazioni si potrebbe discutere a lungo giacchè segnano in maniera piuttosto evidente la sottile linea rossa che divide il genere slowcore con il post-rock; si potrebbe dissertare su chi ha influenzato chi, chi è nato prima di chi, chi ce l’ha più lungo di chi. In realtà questi due generi si sono sviluppati più o meno parallelamente, ed entrambi hanno attinto più o meno dalle stesse fonti (post-punk, krautrock, post-hardcore) codificando e reinterpretando il tutto in maniera l’uno diversa dall’altro. Lo slowcore ha optato per il lato più pop (ma non per questo più affabile) dei Cure di Pornography e per le intuizioni degli Slint di Spiderland, mentre il post-rock ha sicuramente ripreso la libertà di estensione tipica del krautrock dei Can (Tago Mago va inserito di dovere nella discografia consigliata a chiunque) innestandovi quei contrappassi tra stasi/confusione che tanto ricordano al sottoscritto gli Wire di Chairs Missing. Ma non dovevo parlarvi dei Low e del loro ultimo disco?
C’mon segna un bel punto a favore per la band di Duluth rispetto al precedente lavoro Drums And Guns, eccessivamente banale ed atarassico. La tradizione slowcore rimane soddisfatta appieno, nonostante il tipico aspetto “depressivo” del genere venga soppiantato da una più che ricercata evocatività, e al contempo notiamo una varietà stilistica all’interno dell’LP che non può far altro che piacere. Il disco è stato registrato in una chiesa della loro città natale, mossa azzeccata visto che è servita ad approfittare del riverbero naturale della costruzione. Inoltre la band si è divertita a sfruttare per le registrazioni anche, i giochi dei figli della coppia Sparhawk/Parker, a dimostrazione dell’aspetto ludico/creativo sempre presente all’interno dei lavori della band.
Tornando alla variatio dell’album, quello che sorprende maggiormente è la quantita di stimoli da cui sembrano provenire le canzoni; una nuova verve creativa si è impossessata della band che rimanendo all’interno della sicura struttura pop strofa/ritornello sviluppa una serie di motivi dalle più disparate forme: niente sorprese quindi se di fronte a Witches sembri di trovarsi di fronte ad un vecchio singolo dei Verve, o se ascoltando Especially Me si cominci a pensare al neofolk tipico dei Death in June. E non strabuzzate le orecchie se durante gli otto minuti di Nothing But Heart vi dovesse salire su per la schiena un lunghissimo brivido, non applaudite alla perfezione pop di Try To Sleep. Alla fine dei conti è semplicemente musica, sarebbe come congratularsi con un idraulico che ha riparato una tubatura.
I Low hanno fatto quello che dovevano fare, musica, e l’hanno fatto proprio bene.
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