Joan of Arc
Oh Brother
(Cd, Joyful Noise Recordings)
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Oh Brother, il nuovo album dei Joan of Arc, mira presumibilmente allo spaesamento. È la vecchia formula dell’avant-jazz/impro-rock che, delineando un’opera sbilenca dai contorni vaghi e irriciclabili, procede non per forme precostituite, bensì da spore mutabili (e mutanti): soprattutto se in strutture diseguali. Un indizio di questa prassi lo si può riscontrare nella lunghezza programmatica delle quattro tracce di cui è composta l’opera, tutte anonime/omonime – o comunque riecheggianti il vocativo: o fratello…
Quattro brani, quindi, dalla durata media di venti minuti (circa) a testa, in cui i nostri sembrano volerci mettere tutto e il contrario di tutto; dalle ballate folk prive di voci, passando per il post-rock meno ovvio, l’elettronica, drones à-la Wyatt di ‘Little Red Robin Hood Hit The Road’, fino all’improvvisazione più aleatoria e al solito free-jazz entropico.
Ma non è esclusivamente il caso a determinare il modus operandi della band statunitense: come quando l’album sembra voler riprender fiato successivamente ad un’operazione traumatica, salvo poi rigettarsi nel magma fagocitante della casualità pura, seguendo un’estetica dell’indifferenza.
È l’alternarsi di spazi vuoti e regioni sature, secondo un’attitudine collettiva volta a non perdersi niente e lasciarsi percorrere da tutte le possibilità offerte dalle note, cullate però e sospinte nel calderone solo dopo aver fatto tabula rasa. Si avranno così momenti di forte ispirazione e altri in cui il silenzio assumerà un significato peculiare proprio perché conseguente ad un altro silenzio. L’impressione sarà pur sempre quella d’avere di fronte qualcosa di necessario, in ogni momento, senza produzioni sonore in sovrabbondanza.
Non è bulimico questo Oh Brother, anzi, nonostante i suoi ottanta minuti e rotti e la quantità di idee e stili sovrapposti, appare (quasi) più come un’opera minimalista che barocca. È l’avanzare del caos, forse, che decide ciò che deve essere fatto all’occorrenza, qui svelato in maniera più che degna, anche quando l’illusione porta a credersi suoi padroni.
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