Rock in Idrho 2011
Milano, Arena Fiera, Rho, 15 giugno 2011
live report
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Nonostante tutte le polemiche impazzate sul web da quando si era saputo che, oltre ai normali biglietti, sarebbero stati messi in vendita pacchetti con sovraprezzo per assistere al concerto nell’area sottopalco, possiamo dirlo chiaramente: il Rock in Idrho ha funzionato. Alla grande. In barba ad un Heineken Jammin Festival in cui i Verdena e gli Interpol aprono per Fabri Fibra e i Negramaro, l’evento si è confermato come il più convincente evento rock della penisola.
Circa 30.000 le presenze sulla rovente distesa di cemento della Fiera di Rho, allestita con un impianto da grandi occasioni con 80.000 watt a disposizione per la sola amplificazione della zona principale.
Sotto un sole fortissimo le danze sono aperte alle 15.30 dai i nostrani Outback, che hanno il compito di riscaldare il pubblico in attesa dell’apertura vera e propria del festival con i Ministri. La band di Davide Auteliano si presenta con le consuete giacche napoleoniche investendo i presenti con tratti del loro rock sanguigno: Il sole (è importante che non ci sia), Mangio la terra, la cantatissima Tempi bui e Diritto al tetto dedicata a Gigi D’alessio. “Abituarsi alla fine” è un saluto perfetto, giusto prima del tuffo che il frontman effettua diritto sulla folla.
Il cast è degno dei migliori festival europei e formato, eccezion fatta appunto per i Ministri, interamente da ospiti stranieri come i Flogging Molly, band losangelina che infiamma il pubblico con potenti ballate celtic-punk. Fra Requiem for a dying song, Float, Don’t shut ‘em down e The likes of you again, il frontman di origini irlandesi Dave King stuzzica con continue battute il pubblico, passando dalla politica, con l’immancabile Berlusconi protagonista, a temi più seri. Ricordando ad esempio che Irlanda – Italia è finita di recente 2-0. Un saluto al pubblico con un pugno stretto sul cuore, a segno di stima, ed il palco è ceduto ai Band of Horses. La band di Seattle si presenta con la bellissima Laredo tratta dall’ultimo Infinite Arms, percorrendo per lo più i loro vecchi pezzi e salutando, dopo circa mezz’ora, con una magnifica versione di The funeral.
Grande presenza scenica e tanto rumore è quanto aggiunto dagli svedesi Hives: vestiti in rigoroso bianco e nero con cilindro, accompagnati da ninja con la funzione di tecnici da palco e di percussionisti aggiunti. La band dei fratelli Almqvist dal vivo spara forte: lo testimoniano Come on, Hate i told you so e Walk idiot walk; un set sbattutissimo, fatto di arrampicate sulle strutture, crowd surfing, ed un continuo lancio di plettri, solo dopo averli leccati per bene, da parte dell’incontenibile chitarrista Nicholaus Arson. Dopo un inedito che verrà inserito nell’album in uscita il prossimo anno, la chiusura è al ritmo della hit Tick tick boom.
Grande era l’aspettativa di molti per i Social Distortion che, puntuali, si presentano sul palco con un ripulito Mike Ness in larghi pantaloni blu retti da bretelle bianche e cappello in tinta. Anche se ormai è evidente qualche segno dell’età che avanza, è piacevole ascoltare un pezzo della storia del punk californiano: Bad Luck, California (hustle and flow), Cant’t take it with you e Ring of fire di Jhonny Cash sul finale sono presentate con il coro di due splendide ragazze di colore.
Neanche il tempo del cambio palco, che, seppur non più con le movenze di un tempo, Iggy Pop si scaraventa sullo stage. Superata già la soglia dei 60, l’Iguana è sempre la stessa: si sbatte, corre da un lato all’altro del palco, incita il pubblico, sbatte l’asta del microfono. Non sono certamente da meno gli Stooges che lo accompagnano; Scott Asheton alla batteria, Steve Mackay al sassofono, James Williamson alla chitarra e l’ex-Minutemen Mike Watt al basso hanno una devastante irruenza sonora. Essere investiti da Raw Power, Search and destroy, 1970, Gimme danger è abbastanza per rendersi conto che di fronte si ha la storia del punk. Iggy è solito mandare in tilt gli steward, e non si smentisce neanche questa volta invitando sul palco i fan su Shake appeal. Fa specie vedere una quindicina di ragazzini ballare al fianco di un mito vivente. I wanna be your dog non poteva non essere cantata a quattro zampre, un attimo prima di scendere dal palco e dimenarsi sulle prime file. No fun, urlata per ultima, lascia l’iguana da solo sul palco. Continuando a ripetere “Vi amo”, sembrava proprio non voler smettere.
Con un occhio al cielo e alle sue tinte rossastre, ottime per ricordare che la serata coincide con l’eclissi di luna, l’attenzione va tutta al palco ormai pronto ad accogliere i Foo Fighters. Nonostante il cartellone complessivo di altissimo livello, la maggior parte delle persone è lì apposta per loro, tutti pronti ad esplodere in un unico boato allo spegnersi delle luci. Il recente Wasting light, di sicuro miglior album rock del 2011 fino ad ora, li ha definitvamente spediti nell’olimpo del rock che conta, ed enormi erano le attese per l’esibizione. Sicuramente non tradite, viste le due ore tiratissime di concerto che la band di Dave Grohl e soci hanno macinato. La loro ultima apparizione in terra italica risaliva al Gennaio 2006 al Mazda Palace ed è lo stesso Grohl a chiedersi: “Com’è possibile che abbiamo aspettato così tanto a tornare in Italia? Dovremmo venirci ogni due mesi.” L’intenzione di elettrizare il pubblico è chiara fin dal potentissimo terzetto iniziale: Bridge burning, Rope e Pretender scaricano subito una tonnellata di watt. La successiva My hero conferma definitivamente quanto i Foo Fighters siano ormai in stato di grazia, con un frontman che, ormai del tutto affabile, tralascia inutili atteggiamenti da rock star arringando la gente con la sua consueta ironia. Come quando racconta che da ragazzino (“ero un fottuto punk-rocker”) veniva spesso a Milano con la sua vecchia band:”Sapete che prima dei Foo Fighters suonavo in una band?”. Sulle urla del pubblico col pensiero ai Nirvana, Dave risponde: “Gli Scream”, pensando anche all’esibizione del 1987 al Leoncavallo di Milano.
Il set si snoda fra le nuove White Limo, Arlandria e Walk e le vecchie hit Learn to fly, Best of you, Skin and bones e Monkeywrench. Il palco volutamente quasi scarno, due maxischermi ai lati e un impianto luci con i loghi della band, rimarca l’indole semplicemente totally-rock della band. Come Times like these, eseguita per metà solo voce e chitarra prima dell’inserimento della band nella parte finale, e come Young man blues in cui la scena è andata tutta alla voce del batterista Taylor Hawkins.
All my life è una fucilata sul pubblico, scatena il pogo in ogni area del concerto e, con l’ex compagno di Kurt Cobain appena sceso da un traliccio a cui era aggrappato per eseguire un assolo, i Foo’s attaccano una furente versione di Tie your mother down dei Queen con Grohl e Hawkins alternati alla voce.
La chiusura dello show tocca alla splendida Everlong, perfetta per salutare il pubblico ed emozionarlo.
“Questa canzone è dedicata ad un vecchio amico” dice Grohl. E i più nostalgici non riuscono a trattenere qualche lacrimuccia.
Tutti quanti consapevoli di aver assistito ad uno di quei concerti destinati a rimanere nella storia rock di questo paese.
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