Everlast
Songs Of The Ungrateful Living
(Cd, Martyr Inc./EMI)
rock, blues
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Ci sono quei momenti nella vita in cui cerchi conforto nella musica e inaspettatamente lo trovi, nelle pieghe fumose e dotate di calore e grazia di Songs Of The Ungrateful Living, sesto album da studio di Everlast, al secolo Erik Schrody, che esplora ambiti meno hip hop e più infusi di rock, country, blues. E ti sembra di startene lì seduto a bere un caffè caldo con un amico, abbastanza saggio per averne passate di cotte e di crude.
Un sound che evoca periferie impietose e amare, ma anche l’umanità disperata e insieme speranzosa che le popola. Ne dà già un idea l’apertura con l’intenso, raggelante Long At All, e con l’amaro dalla veste quasi allegra di Gone For Good, che sembra uscire da un vecchio grammofono abbandonato in una stanza vuota, e che poi si apre in una dimensione corale quasi catartica. Incrocia rap e blues I Get By, un ritratto, reso in modo orecchiabile e a tratti quasi rilassante, dei tempi duri che attraversiamo, animato di una lucida disillusione. Più intimi Little Miss America, e la sottile malinconia retta dalla chitarra acustica in My House, che si unisce a un’atmosfera soffice e agrodolce, un clima riflesso anche nel bel Long Time.
Movimentati e sinuosi, a tratti allegri Friday The 13th, arrochito e orecchiabile, e il sottile The Crown, uno dei miei pezzi preferiti nell’album. La tristezza e i rimorsi assumono una forma incredibilmente orecchiabile nel sospirato Sixty-five Roses. Moneymaker imprime una direzione dura, mentre la disperazione diventa ovattata nel clima suburbano di The Rain, che arriva a ondate, quasi ipnotico, mentre la tensione è un po’ smorzata dal misterioso Some Of Us Pray. Le tracce rap sono più evidenti in I’ll Be There For You, dove le parole scivolano finendo su un fondo sabbioso di suoni caldi, appoggiati su un ritmo incalzante, e in Even God Don’t Know, con le sue chitarre distorte sullo sfondo.
A chiudere formalmente l’album la desolazione di A Change Is Gonna Come, che ripropone il rapporto conflittuale tra speranza e assenza di speranza che fa quasi da filo conduttore all’insieme.
La tensione non cala nei tre bonus presenti, il secco, violento Everyone Respects The Gun e Final Trumpets, con il suo andamento di crescente intensità e confusione. A concludere il live in versione acustica della triste ballata Black Coffee.
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