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David Gilmour: recensione di Luck and Strange

Quinto album solista che Gilmour stesso definisce il migliore da The Dark Side of The Moon. Sarà davvero così?

David Gilmour

Luck and Strange

(Sony)

rock psichedelico

______________

È impegnativo recensire un’icona come David Gilmour, che pubblica il suo quinto album solista in studio, Luck and Strange, soprattutto se si sono amati i Pink Floyd e si deve mostrare il rispetto che merita un’artista leggendario. Il nuovo disco raccoglie undici tracce firmate dall’artista di Cambridge, composte con una band da lui definita molto creativa e con cui pensa di pubblicare un nuovo album in futuro.

Gilmour mette sul tavolo le fluide atmosfere folk-blues con cui ha costruito i suoi precedenti lavori, e talvolta i solo di chitarra lunghi che adoriamo come in Scattered, il brano che più ricorda i Pink Floyd.

In generale, Luck and Strange non brilla di ritmo, niente pezzi grintosi, è un contemplare sugli anni passati con un certo sentimento malinconico.

Pensato durante il Covid, in un ambiente familiare presente nell’album con i testi scritti dalla moglie Polly Samson e la partecipazione della figlia Romany Rose (“quella del meme”) che già aveva cantato con lui sui singoli Yes, I Have Ghosts e Kokineli, il nuovo lavoro di Gilmour è aperto dalle prime note della sua chitarra con un breve intro strumentale di atmosfera, Black Cat, lasciando poi spazio al cantato della title track, un brano nato da una jam del 2007 con Richard Wright e che ha dato spunto per il titolo dell’album, sessione in studio con il compianto tastierista riproposta integralmente nei suoi 13 minuti alla fine di questo disco.

Un ukulele presenta Piper’s Call aprendo ad una serie di piccoli assoli di chitarra acustica e lasciandosi trasportare da atmosfere sognanti. Il brano richiama il pifferaio magico, mette in guardia dai patti col diavolo, dai serpenti ingannevoli, di chi cerca di venderti cose di cui non si ha realmente bisogno. L’atmosfera sognante torna subito con A Single Spark che invoca preghiere di buone intenzioni, il pezzo dà qualche brivido elettrico solo dopo 3 minuti, dilungandosi con una serie di affettuosi assoli, con gli archi che accompagnano leggermente sotto rendendo il brano struggente, ma non così encomiabile.

C’è un piccolo interludio strumentale con Vita Brevis e si riprende con Between Two Points, una cover dei Montgolfier Brothers, duo dream pop britannico scioltosi qualche anno fa, che si apre con il pizzicato della figlia Romany all’arpa mentre canta delicatamente il brano con apprezzabile bravura. E’ un brano che Gilmour voleva sentire con una voce femminile e, prima che lui corresse a prendere un treno, ha convinto la figlia a vedere se poteva funzionare, azzeccandoci e facendola poi incidere in studio. E’ una canzone che invita ad andare avanti, ad accettare gli abbandoni, ad assumersi le proprie colpe.

Dopo una lunga ricerca per la produzione di questo album, la scelta è  caduta su Charlie Andrew, un 44enne che ha lavorato tra l’altro con i Madness, Matt Corby, Alt-J, Wolf Alice ed altri artisti britannici, portando a Brighton e Londra Will Gardner e la sua orchestra per gli arrangiamenti del disco, con il pianista Rob Gentry che ha fornito la creatività che mancava dopo la scomparsa di Wright. Torna al basso anche Guy Pratt, il dopo Waters nei Pink Floyd e compagno di merende di Nick Mason con i suoi Saucerful of Secrets, e il batterista leggendario Steve Gadd, uno che ha iniziato a suonare con Tony Levin e ha registrato un po’ con tutti, da Chick Corea a Pino Daniele, Paul Simon e gli Steely Dan.

Polly aveva regalato a David una poesia per il loro anniversario, “Will I hold your hand or you be left holding mine?” cita la canzone, ed era così contento quel giorno che ha trovato l’ispirazione per scrivere Dark and Velvet Nights, che apre in maniera ruggente un brano dove si chiede di mantenere le promesse e di non tradire mai, inalberandosi in un rhythm and blues ottimista e ben ritmato, ma non trascinante sebbene l’orchestra faccia un buon lavoro. Anche Sings nasce da un ritornello scritto 25 anni prima mentre David suonicchiava nella cameretta di suo figlio Joe, quando questi aveva 2 anni, che chiedeva al padre di cantare qualcosa, finendo per essere registrato su un minidisc, raccontando dei giorni in bianco e nero di un amore incontrato a Portobello Street, a cui chiedere oggi di tenersi stretti a combattere la vecchiaia e le brutte notizie.

I temi sono quelli dell’oscurità che ci avvolge, della morte, dell’amore che ci rialza nei fasci di luce del mattino, delle maree che ci disobbediscono come cantato in Scattered. Un disco che ha melodia, musicalità, e ben fatta senza dubbio, ma assolutamente nessun gran songwriting, nemmeno alla pari di On a Island e Rattle That Lock. Ma fin qui nessuno aveva aspettative di un’opera grandiosa, non fosse che all’uscita del disco Gilmour ha detto che “questo è il miglior album che abbia mai realizzato dai tempi di The Dark Side of The Moon”, e non ne esce proprio bene da questa affermazione ingombrante.

Ricapitolando: abbiamo 7 tracce inedite, di cui una ereditata da una jam session con Wright del 2007, e un’altra uscita a supporto di un racconto della moglie nel 2020. Ci aggiungiamo pertanto una cover, due brevi strumentali, e una traccia ripetuta per chiamarlo “album”. Un po’ poco dopo 9 anni di assenza dalle sale di registrazione. Insomma, Gilmour prosegue senza infamia e senza lode il lavoro cominciato con On A Island, niente di rivoluzionario né di evoluionario. La storia l’ha già scritta.

Sito web: davidgilmour.com
Facebook: davidgilmour

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Luca Paisiello
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