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Wild Beasts + These New Puritans: Bologna, Locomotiv, 9 aprile 2010 (live report)

I due volti dell'indie rock inglese. Uno sguardo al passato prima, un tentativo di futuro sincopato e indigesto poi. Prematuri eppure talentuosi, indie pop e post punk, canzone e distruzione della stessa. Wild Beasts e These New Puritans, fuoco amico a Bologna

Wild Beasts + These New Puritans

Bologna, Locomotiv club, 9 aprile 2010

live report

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Uno sguardo al passato prima, un tentativo di futuro sincopato e indigesto poi.

L’accoppiata del Locomotiv sconvolge nelle premesse, in parte nei fatti. Aprono i Wild Beasts, stilosi al punto giusto nel vestiario – per non dire orripilanti – sono il gruppo spalla perfetto, gruppo spalla anche di loro stessi, questo il problema.

Infilano una dopo l’altra le perle dei loro due album, ci stendono con morbidi pezzi indie-pop conditi di nostalgia e gorgheggi che nemmeno nel coro della loro chiesa di Kendal si potrebbe immaginare. La liquidità di All the king’s men assale vendicativa nella sua leggerezza e invidia, è il momento del movimento totale e spensierato per i presenti.

La grandiosa We’ve still got the taste dancing segna il punto di non ritorno, apice assoluto della serata, tra sciabolate chitarristiche dei migliori u2 e ritornelli alla ABBA. Perfetti e trascinanti su album, dal vivo rimangono intrappolati in un ruolo non ben definito, canzoni ineccepibili ma che faticano a digerire le impalpabili personalità dei componenti del gruppo.

Diventeranno qualcuno. Resta da vedere se rockstar o impiegati all’ufficio pacchi. Le premesse ci sono, per entrambi i mestieri.

E poi loro, i These New Puritans, definiti i “come avrebbero suonato i Joy Division negli anni dieci”. Tutti in posa, parte la base – basi ovunque tra l’altro, che amarezza – e poi dal pavimento compare a fatica Jack Barnett, il leader supremo: personalità introversa incastrata dentro un salvalavita Beghelli.

Parte We want war, e si assiste all’apoteosi da sopravvivenza urbana come unico desiderio. Due batterie inferocite e instancabilmente martellanti, e una dea bianca che suona eppur non si muove e Lui che scortica un attimo la chitarra e poi torna a nascondersi. Poi finita l’estasi, il Barnett continua a rappare mentre tutto l’ultimo disco risuona imperterrito e sembra una lunga litania dei giorni nostri, purtroppo altrettanto noiosa, una protesi a grandezza naturale della già citata We want war.

Un vuoto di quasi un’ora, pretenzioso e inutilmente scenografico, innocui emuli dei Battles, ma più tristi e rassegnati. Ma poi il lampo. Un crossover tribalizzato e metabolizzato dentro industrie rumorose assale il pubblico con Drum courts, con la voce che stona, ringhia, strappa la pelle, e il pugno che sbatte verso il pubblico ammonendolo senza accusare nessuno ma per niente qualunquista.

Barnett a malapena guarda le prime file, e tutto sembra cupo eppure artificiale. Conclude una Orion dal sapore gospel che sa di metallo con Barnett sembra un messia timido tra schiere di adepti assettati. Infine l’unico bis, la tanto attesa Elvis, un intruglio shoegaze spiazzante e lucido, per cui si potrebbe uccidere, ricorda il modo di combattere dei guerrieri giapponesi, sfidando il mondo, e lanciando contro l’avversario le proprie viscere.

Applausi scroscianti ma non troppo convinti, auto-obbligati forse onde evitare l’onta dell’etichetta da eretico che critica, o forse il rimprovero del vicino malato di nuove tendenze musicali, estreme eppure fatue a ben vedere questi spettacoli.

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Federico Pevere
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