Tuxedomoon
8 luglio 2011, Roma, Villa Ada
live report
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Mi capita spesso di dubitare dei concerti di band “storiche”. Perché l’usura del tempo diventa in molti casi visibile/insostenibile, soprattutto quando si ha a che fare con formazioni più che trentennali. Quindi preferisco non andare a vederle; o comunque, se ci vado, andarci (appunto) con i piedi di piombo.
Ed è stato proprio quest’ultimo il caso del concerto a Villa Ada (Roma) dei Tuxedomoon, una band che per amore ancestrale (personale), stile, periodo storico, per ciò che insomma hanno significato nella new wave e per la storia della musica, non potevo assolutamente evitare di vedere manco fosse l’ennesimo concerto di Bob Dylan.
Ma si sa, in questi casi il dubbio permane: almeno fino a quando non hanno cominciato a suonare, per poi cioè rendermi conto – subito dopo, e con un consolidamento progressivo delle certezze – di trovarmi di fronte ad una delle live band più geniali attualmente in circolazione… praticamente il concerto dell’anno!
D’altra parte lo stesso luogo dell’esibizione sembrava perfettamente adatto al caso (e al clima), in relazione anche alla quantità di spazio necessaria (il palco) per una band di polistrumentisti e performer, dove video e videoarte entravano in relazione diretta con la musica e i musicisti, grazie ad uno schermo posto sul fondo del palco, i cui contenuti erano gestiti dal solito Bruce Geduldig.
Un approccio alla musica da “artisti”, quello dei Tuxedomoon, quasi come materia da manipolare e da presentare al pubblico con cautela, senza trascurare l’insieme delle relazioni intercorrenti fra immagine e suono, spazio e contesto, evitando con questo di risultare banali o comunque ovvi nella costruzione dei rapporti. Forse uno spettacolo totale, dunque, in cui investire l’integrità dei sensi dello spettatore.
Come definire altrimenti i violino chitarra e voce di Blaine L. Reininger, i piano sax clarino e tastiere di Steven Brown, la tromba e l’armonica di Luc Van Lieshout, il basso di Peter Principle e le performance con tanto di interattività (video)elettroniche del già citato B. Geduldig? Atmosfera è probabilmente la parola giusta, da contestualizzare in rapporto alla serata “magica” – per estensione. Come nel caso di Tritone (Musica Diablo), in cui le immagini di un Bosch finalmente “(ri)animato” sublimavano (come forse nessun’altra cosa avrebbe potuto) l’incedere del brano. O come per le pause performative di Geduldig, in cui strane proiezioni accompagnavano quella che era l’attorialità dimessa inquieta stranita del performer; o per Time to Lose, dove lo stesso poteva dar forma a trasformazioni meta-teatrali attraverso una serie di maschere in successione, a determinare un continuo di pose e stati d’animo. Senza tralasciare con questo pezzi più recenti come One Little Victory, in cui esternare la vena più europea (e latina, nello specifico), per la molteplicità dei modi caratterizzanti da sempre il loro stile.
A momenti sembrava affacciarsi il fantasma della ‘perfezione’, nella sua forma più assoluta, e senza con questo voler intendere la perfezione insulsamente strumentale: trattavasi invece di mera purezza stilistica, quella che rende lo spettatore “cosciente” di essere al cospetto di un’opera d’arte, cioè di una band-capolavoro in quanto capace di fare un tutt’uno di tecnica sopraffina e ispirazione.
Capita ancora più spesso, quindi, che le convinzioni personali vengano poi screditate da quelli che sono i fatti concreti, per capire successivamente (e finalmente) di aver preso un vero e proprio granchio. Ringraziamo i Tuxedomoon, per questo.
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