Skid Row
21 maggio 2018 (Druso, Bergamo)
live report
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Gli Skid Row sono stati una delle band più importanti tra fine anni Ottanta e inizio Novanta. Il loro primo album, omonimo, ha venduto caterve di copie scaraventandoli in un batter di ciglia dalle periferie del New Jersey alla gloria mondiale.
E probabilmente il loro difetto è stata proprio la troppa sicurezza di sé, che si è dimostrata vera e propria sfrontatezza e si è concretizzata nel successivo Slave To The Grind che, ancora oggi, loro rivendicano con orgoglio essere il primo album heavy metal a raggiungere la posizione più alta di Billboard. Ma questo vale solo per le statistiche, la realtà è che fu vanagloria e da lì in avanti il loro declino si è fatto sempre più ripido.
Avrebbero potuto mantenere quei suoni potenti abbinati a una melodia orecchiabile, e allora oggi saremmo qui a parlare d’altro. Invece, al top, hanno deciso di abbandonare ogni compromesso e allora eccoci al Druso di Ranica, Bergamo. Una zona industriale, capannoni che si susseguono, tante rotonde e strade deserte in una fresca serata di lunedì. E domani è martedì, appunto, e tutti si lavora, madonna.
Eppure il locale si riempie in fretta. Dopo tre gruppi spalla che sono entusiasmati all’idea di aprire per loro, alle undici meno un quarto eccoli, gli Skid Row.
I tre membri originari sono abbastanza in forma. Dave Sabo ha quell’aria da studente fuoricorso che ormai può sentirsi professore, Scotti Hill ha una tuta da meccanico e il viso di Alice Cooper col trucco colato, Rachel Bolan con quel suo look metallaro di catene borchie piercing e stivaloni è talmente kitsch da risultare il più cool di tutti. Il più semplice è il batterista, Rob Hammersmith, un onesto picchiatore che si è unito alla band nel 2010.
Attaccano con la potentissima Slave To The Grind, e poi Sweet Little Sister che non abbassa di certo i ritmi. Ripenso al mio vicino di casa che mentre partivo stasera mi ha chiesto “Chi vai a vedere? Gli Skid Row? Mai sentiti”. Lui è del 1981, appena una generazione dopo la mia, quindi se li è persi per poco. Vicino a me invece c’è uno con la maglia dei Metallica che confida a un amico “I vecchietti picchiano giù duro”. Già, queste vecchie glorie ancora martellano pesante.
Piece Of Me è un altro colpo al cuore. Mentre Scotti continua a farmi linguacce in perfetto stile glam, io continuo a pesare la performance vocale di ZP Theart. La mia amica Sonia li ha sentiti in Galles e lo trova fantastico, le recensioni dei concerti a Londra invece sottolineano le difficoltà nel prendere le note alte. Non bisognerebbe paragonarlo a Sebastian Bach, questa è la chiave di lettura, ma è inevitabile caderci e no, non c’è paragone.
Arriva Big Guns e poi il loro inno nazionale, 18 & Life. Ce l’ho nella mia playlist numero 1 sull’iPod, la ascolto ogni santo giorno, Ricky was a young boy, he had a heart of stone… Mi torna in mente lo show di qualche anno fa di Bach all’Alpheus a Roma, quando continuava a far volare il microfono girando velocemente il filo come un lazo e avevo il terrore che si spaccasse la fronte perché le movenze erano un po’ impacciate.
Stasera invece mi fa ridere Bolan che o si è dimenticato in tasca un uniposca oppure ha un’erezione che dura tutto il set.
Si prosegue con Makin’ A Mess, altro pezzo forte dal quale si intuivano, già all’epoca del loro quasi AOR, quelle tendenze più metallare di cui ho già parlato e che li hanno portati qui stasera.
Rattlesnake Shake, Psycho Therapy, Quicksand Jesus, non c’è un attimo di pace.
Poi prende la parola The Snake Sabo, il primo chitarrista dei Bon Jovi prima di Sambora e perfino prima dei Bon Jovi stessi. Aveva un modo di suonare troppo aggressivo per Jon, ma questa è storia e lasciamola a History Channel, come anche le loro successive beghe legali.
Su Monkey Business Dave e Scotti si scatenano in un duello da guitar hero che mi gusto dal fianco del palco mentre il ricciolosissimo cantante mi passa accanto per andare a pisciare.
Rientra per il gran finale. C’è una chitarra acustica e allora eccola, I Remember You, altro pezzo della mia playlist mattutina.
Poi We Are The Damned e infine Youth Gone Wild.
Bene, tiriamo le somme.
I vecchietti picchiano davvero, vero.
Il locale è pieno ma è piccolo, la band non esce per i selfie e gli autografi. Ok il marketing dei VIP packages ma certamente sarebbe stato bello vederli bersi una birra con chi continua a seguirli da quasi trent’anni.
Il cantante, naaaaaaaah, N.C.S.
I brani sono praticamente tutti quelli dei primi due album, è come se il resto della loro carriera non esistesse o, meglio, se fosse stato cancellato per far contenti tutti.
E, appunto, tana libera tutti.
I Cream Pie, uno dei gruppi di apertura, sono interessanti e prima o poi dovrò decidermi a recensirli. Avevano già aperto alle Officine Sonore di Vercelli per gli L.A. Guns e li avevo notati per la batterista piccolina, carina (eh!) e inferocita.
Si torna a casa, tutto sommato mi sono divertito. Avessero scritto qualche arpeggio di più, invece di stare seduto qui su un amplificatore probabilmente li vedrei piccoli quanto un dito dalla tribuna stampa di un’arena o di uno stadio. Ma questa è la storia anche di altri, e lasciamola a Sky Arte.
Bang bang, shoot’em up, the party never end…
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