Bon Jovi
Udine, Stadio Friuli, 17 luglio 2011
Live report
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Gli anni ’80: o li odi o li ami. Spalline imbottite, occhiali a specchio e Paninari: decisamente kitsch, visti con il senno di poi. Ma sono anche gli anni che hanno segnato l’inizio della musica elettronica e del Glam metal. A chiunque storca il naso alle mie parole, ricordo che Mötley Crüe e Skid Row rientrano nella categoria, così come il fascinoso Bon Jovi (anche se i primi sono sempre suonati più duri e puri). Capelli lunghi e ballate rock hanno fatto di questi ragazzi del New Jersey un’icona, ma c’è voluto ben di più per reggere al passare del tempo. E gli oltre 40.000 che da tutto il continente, isole comprese, hanno raggiunto Udine per assistere alla loro unica data italiana ne sono la prova.
Nonostante le origini siciliane di Jon Bon Jovi e il grande affetto sempre riscosso, il nostro paese è stato spesso tagliato fuori dalle rotte concertistiche. E anche la scelta, dopo 8 anni di assenza, di tenere il concerto allo Stadio Friuli di Udine, sicuramente non uno dei più capienti del nord Italia, è suonata come una mossa per attirare i fans d’oltralpe, in particolare tedeschi e austriaci, che non si sono di certo persi l’occasione di associare mare e concerto. Sgamati, non c’è che dire.
Dopo il live set dei FLEMT, gruppo glam rock di Senigallia vincitori del contest Edison Change the music, alle 21 precise i maxi schermi posizionati lateralmente e dietro il palco prendono vita e accendono gli animi: è Raise your hands, brano d’antologia, a dare il via alle danze. La risposta del pubblico (decisamente variegato, dati gli oltre vent’anni di carriera) non tarda a farsi attendere: da subito il coinvolgimento è totale.
La band sul palco è carica e piacevolmente sorpresa dal benvenuto che il fan club, stipato nelle prime file, ha preparato loro: una splendida coreografia nelle due tribune laterali creata con cartelli bianchi, rossi e blu, a formare a destra la scritta JOVI e a sinistra la bandiera degli Stati Uniti. E’ piaciuto talmente tanto che il giorno dopo la foto era postata sulla loro pagina Facebook. E’ in quest’atmosfera di feedback reciproco che si susseguono non solo le tracce contenute nella recente raccolta, ma anche quelle che hanno fatto dei Bon Jovi una delle rock band più longeve e acclamate in circolazione: You give love a bad name, Blood on blood, It’s my life, Have a nice day, scandite da immagini a tema e primi piani dei vari (perfettamente conservati) componenti proiettati sullo schermo alla loro spalle.
Con Bad medicine i 4 rockers (6 in realtà, dal vivo supportati da Hugh McDonald e Bobby Bandiera) si sbizzarriscono in un medley con Pretty woman e si divertono a coinvolgere il pubblico in interminabili cori. Bed of roses e l’intramontabile I’ll be there for you aprono il momento ballad. Nonostante la pioggia abbia cominciato a scendere, Jon invita Richie sulla passerella per condividere una serata con 40.000 dei suoi più intimi amici. E’ proprio questa la sensazione che ti trasmettono i Bon Jovi dal vivo: quella di essere in un ambiente amichevole e cordiale, fatto di convivialità e familiarità.
Keep the Faith chiude la prima parte di concerto: il classico allontanamento dal palco di pochi minuti, e si ricomincia con una chicca come Dry county, dalle atmosfere rarefatte. Ma sarebbe stato solo l’inizio di una serie di bis uno più spettacolare dell’altro: Wanted dead or alive l’aspettavamo tutti con trepidazione. Sentire Jon e Richie duettare su questo pezzo davvero storico fa un certo effetto, soprattutto a chi, come me, con i Bon Jovi c’è cresciuta (e il vinile di mia sorella nel ritornello saltava sempre!). C’è stato, nei giorni precedenti la data di Udine, il timore di non vedere Richie Sambora on stage. Allontanatosi nei mesi scorsi dalla band, ufficialmente per problemi di salute, è apparso comunque in forma. Senza di lui, le cose non sarebbero state le stesse.
These days e Livin’ on a prayer, giunta quasi inaspettata sul finale con un impatto fulminante, ci traghettano con energia verso la fine del concerto. Ma il pubblico non è ancora pago, e il gruppo sembra non voler tradire un tale affetto, tanto che decide di restare sul palco e Jon, chitarra e voce, accenna un brano di cui dice di non essere sicuro di ricordarsi le parole: Lie to me in realtà è solo l’introduzione all’immancabile Always.
I love this town è davvero l’ultima canzone di quasi tre ore di concerto, durante il quale questa band di non più giovanissimi ha dimostrato professionalità, grande amore per la musica e voglia di divertirsi. Io stessa, che li ho sempre amati, non avrei mai immaginato un tale spettacolo. Non importa se la svolta country degli ultimi album non vi è piaciuta, e nemmeno se non eravate neanche nati negli anni ’80: i Bon Jovi sono ancora qui e promettono di restarci a lungo.
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