Bon Jovi
This House Is Not For Sale
(Universal)
pop-rock
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Che botta di adrenalina ragazzi!
Il nuovo dei Bon Jovi, This House Is Not For Sale, è finalmente arrivato ed è disponibile anche in edizione deluxe e in vinile (a breve uscirà tutta la discografia su 33 giri. Da paura!).
Iniziamo dal titolo.
È storia recente la rottura di JBJ con la sua storica casa discografica, vi ricordate l’anno scorso Burning Bridges?
E ancora fresca è la dipartita del suo braccio destro, alter ego, fratello di palco e di vita, Richie Sambora, attualmente impegnato in un tour sotto l’acronimo RSO, insieme alla sua compagna Orianthi, mirabolante ex chitarrista di Michael Jackson con la quale ha ormai instaurato un proficuo sodalizio artistico e privato, non necessariamente in quest’ordine, che a breve dovrebbe portare anche alla realizzazione di un album.
Jon Bon Jovi ha più volte semplicisticamente riportato ai giornalettari che “un giorno Richie non si è presentato al lavoro”. Ma la questione è molto più complessa, tanto che non è il caso di affrontarla qui.
Fatto sta che oggi, dopo il riavvicinamento con la Universal, la mancanza del fratel prodigo continua a farsi sentire.
“Queste quattro mura hanno una storia da raccontare… ho sistemato ogni mattone e martellato ogni chiodo… la porta è fuori dai cardini, non c’è nessun desiderio nel pozzo, le strade bruciano, la finestra panoramica è spaccata… i lupi sono alla porta… questo cuore, quest’anima, questa casa non è in vendita”.
Chiaro?
E poi, doverosamente, un’occhiata alla copertina, che è brutta ma racchiude bene la filosofia del rocker cinquantaquattrenne e il filo conduttore di quest’album. Le proprie radici, il lavoro di una vita, i sogni, i sacrifici, l’unione. Sono i suoi valori di sempre, tanto che per i fan più fedeli questo art-work appare ovvio. Ma è negli aspetti in qualche modo basici di un’esistenza che si racchiude alla cova il suo futuro.
Non è certamente un caso che la band, per l’occasione, ha lasciato il Sancturay Sound II (lo studio casalingo di Jon dove sono stati registrati praticamente tutti i lavori della band degli ultimi vent’anni) per tornare al 441 West 53rd Street, NYC. Non vi dice niente? Oggi si chiamano Avatar Studios ma, negli Ottanta, fuori da quell’anonimo edificio di mattoni a quattro passi dalla Broadway c’era l’insegna “Power Station”. Lì hanno inciso Springsteen, i Queen, gli Stones, Bowie e chi più ne ha più ne metta. E mentre i Dei accordavano le chitarre, il giovanissimo John Bongiovi Jr. preparava i caffè, passava lo straccio sul pavimento, “rubava” segreti e aspettava la notte perché, mentre loro invadevano la città per domare i loro fagocitanti appetiti sessuali e alimentarsi di bacco e tabacco (quest’ultimo in senso lato, anzi latissimo!), lui rimaneva da solo e poteva impadronirsi temporaneamente delle apparecchiature magiche per registrare i suoi demo prima di buttarsi a dormire su un vecchio divano e riavvolgere il film di lì a un paio d’ore.
Del primo singolo, che poi è la title-track, abbiamo in un certo senso già visto quanto di più rilevante c’era da vedere.
Anche se poi parlare di singoli non ha più molto senso.
Basti pensare che, a una settimana dall’uscita di This House Is Not For Sale, sono già nell’etere ben 3 video ufficiali, tra cui quello della roboante Knockout, un concentrato di cliché armonici e invocativi perfetta per l’uso che ne hanno fatto, “se hai paura di perdere non vincerai mai… accendi il fuoco, lotta, nessun rimpianto, questa è la tua vita…”, e la più riflessiva Labor Of Love, che riflette sulla fatica di amare che “è un impiego a tempo pieno in cui il lavoro non finisce mai”. E chissà quanti mariti saranno d’accordo, alla faccia di tutti i critici che hanno sempre etichettato JBJ come un musicante belloccio per femminucce (in realtà il pezzo ha tutt’altro tenore, ma chiudiamo qui anche questo discorso, anch’esso estremamente più complesso).
La band, inoltre, ha già suonato l’album per intero in 3 o 4 gig intime riservate agli amici e ai membri del fan club (non proprio…) che sono rimbalzate in diretta su Facebook attraverso un qualsiasi banalissimo (!) broadcasting smartphone.
Quindi cosa andremo a scoprire quando mangeremo via il cellophane e annuseremo il booklet? Nulla. Perché l’album, comprensivo dei bonus track della opulenta versione nipponica, è già “da mò” sui lettori di chiunque abbia voglia di ascoltarlo e un po’ di dimestichezza col mouse. Ma che la Rete, così eccessivamente democratica da dare la piena libertà di azione e di parola a tutti proprio tutti, sia stata l’improprio volano con cui gli idioti hanno distrutto non tanto l’industria discografica quanto la magia della musica, è cosa ormai stranota a quella parte di umanità ancora pensante.
Living With The Ghost cattura l’attenzione per un passaggio breve, efficace quanto emblematico nella sua semplicità retorica e, paradossalmente, auto smentente, “Non vivrò col fantasma, nessun futuro vive nel passato”.
I fan dello zoccolo duro, stavolta, si stanno dividendo tra gli entusiasti e i moderatamente felici, due gradi differenti dello stesso gradimento che, come minimo comun denominatore, ha lo sbalordimento di tutti per quello che è stato accolto come il primo album post These Days (eravamo nel 1995) degno di non finire nella colonnina dell’Ikea dopo tre o quattro ascolti.
Due tra i fan dei Bon Jovi più grandi e fedeli di sempre, di quelli che meritano il massimo rispetto perché non hanno mai leccato il culo per ottenere il cioccolatino della premiata ditta, mi hanno scritto rispettivamente: “È bellissimo, da non credere” e “Mi sembra molto carino. Anche quella rottura di palle di Real Love ha un arrangiamento di archi interessante! Devo ancora metabolizzarlo comunque”.
Non ci sarà più nessuno Slippery When Wet, mettiamocelo in testa. Il giro di boa c’è stato nel 1997 con Destination Anywhere, il primo e unico disco solista di Jon, quello in cui ha scritto dei testi (perché se vuole sa scriverli, ne abbiamo le prove e non ce le ha passate sottobanco la sua prof del liceo!) e ha suonato la musica che voleva suonare, che poi è anche quello di cui successivamente ha detto “Sembra che sia piaciuto solo a me”.
Così, dopo tre anni, è arrivata la batteria elettronica, i chorus infiniti, gli ooooooh, gli shallala, i boom boom, le facce tra la folla e i lanci di dadi infiniti, Luke Ebbin, Billy Falcon, John Shanks… Un tizio l’altro giorno ha commentato così un post di Howard Stern: “I Bon Jovi ormai sono una cover band di John Shanks”.
È Born Again Tomorrow il pezzo che potrebbe assurgere a manifesto di quello che è oggi la band del New Jersey. Un inno da stadio pazzesco, indovinate un po’, sul tema della mancanza di rimpianti.
L’evoluzione li ha portati qui, a questo songwriting che si divide tra anthem e ballad e che si gigioneggia in arrangiamenti tremendamente moderni, o contemporanei a seconda di come la si voglia vedere. I suoni citano gli U2 e i Coldplay, e li attualizzano perfino.
Come al solito ci si dividerà tra i detrattori che argomenteranno di una pietosa rincorsa al gusto generale, e i sostenitori che nei conclave cibernetici si convinceranno di essere i migliori fan del mondo della migliore band del mondo o, quantomeno, di quella che più ha saputo rinnovarsi senza rimanere prigioniera del proprio tempo.
Roller Coaster è l’episodio che mi è piaciuto meno, con quel ritornello saltellante che sembra totalmente avulso dal resto del brano e arriva con un forte strappo, proprio come una parafrasi musicale di una discesa sulle montagne russe (ao!).
L’intro di New Year’s Day potrebbe essere stato tranquillamente suonato da The Edge. E, visto il titolo, all’inizio del primo ascolto ho pensato che fosse un omaggio nello stile di The Fighter, brano del precedente What About Now (2013) in cui musica, arrangiamento e testo sancirono apertamente una –gradita- devozione a Lor Santità Simon & Garfunkel. E invece no, perché anche qui la narrazione corre su un doppio binario, evocativo o scialbamente populista, a cuore aperto o completamente ermetico, non lo sapremo mai. Giudicate da soli, “Canto hallelujah, gli angeli dicono Amen… brindiamo ai nuovi inizi… Questo messaggio nella bottiglia, la saggezza del vino, è solo un lunedì piovoso, non un Auld Lang Syne”. Quest’ultimo è il titolo di un antico canto popolare scozzese sul capodanno e la sua traduzione è soggetta alle più disparate interpretazioni anche se quella più accreditata è, copio/incollo da linkiesta.it, l’accostamento per assonanza a “Old Long Since” (“Tanto tempo da quando..”), una sorta di “c’era una volta”; la sonata narra la storia di un’amicizia interrotta, riconciliata (nella notte di San Silvestro?) da un brindisi fraterno. Le parole sono semplici, popolari e dal mood nostalgico. Proprio come quelle di Jon e, lo scioglimento dei ghiacciai dei poli che si apprestano a devastare climi e correnti, speriamo non spingano la bottiglia sulla barriera corallina di qualche villaggio turistico di Sharm El Sheik.
The Devil’s In The Temple è un gran pezzo, e il testo è probabilmente il migliore tra quelli delle ultime 100 canzoni o giù di lì.
Scars On This Guitar ci riprova, anche se il rigurgito a metà strada tra Wanted Dead Or Alive e Bed Of Roses paga lo scotto dei precedenti inarrivabili, come un qualsiasi spin-off.
“La mia voce è distrutta e sto ingrigendo…”, è una frase che pressoché qualsiasi critico musicale che abbia cavalcato gli Ottanta e i Novanta, yuppie o grunge che fosse, non avrebbe mai saputo predire. Quindi, quando c’è da dare, diamo a Jon quel che è di Jon, perché God Bless This Mess è un altro brano da spararsi a tutto volume per far schiumare i vicini.
L’intro di Reunion suona uguale a quello di Whole Lot of Leavin’ (da Lost Highway, 2007), e spara dritto in faccia come la pistola di Roy Liechtenstein. “Non è così che finisce la storia, amici cari, questa è soltanto una biforcazione lungo la strada… alcuni amici rimarranno e altri se ne andranno…scrivi la tua canzone, cantala da solo, ama la tua vita, impara a ridere, lanciati a ballare, tocca il cielo e scatta foto a ogni tuo passo, rendi questo momento il meglio del resto dei tuoi giorni, io ti dico vai, inizia la tua rivoluzione, e ci vediamo alla reunion”.
E dopo questa bisogna per forza tirare il fiato, e infatti la track-list prevede un brano interlocutorio ma che chiude il cerchio, non c’è niente da dar via qui, Come On Up To Our House, venite tutti a casa nostra e che il party abbia inizio.
Poi, certo, c’è la deluxe edition che contiene 5 bonus, tra cui il lentaccio Real Love, quello con gli arrangiamenti fichi di archi. E We Don’t Run, ve la ricordate? Chiudono I will Drive You Home e Goodnight New York.
E poi ancora c’è la versione giapponese, che contiene l’ulteriore Touch Of Grey.
Il tour americano partirà a inizio anno e l’unica cosa che mi preoccupa è che come chitarrista ritmico potrebbe essere confermato John Shanks.
Stiamo aspettando con ansia l’annuncio.
Anche delle date europee, che speriamo non siano in stand-by nell’attesa della probabile elezione di Miss Clinton e della nomina di un Ministro dello Spettacolo.
Ma sapete cosa c’è?
Stavolta me ne strafotto di Hillary, di Donald e pure di quell’odioso bagarinaggio che amabilmente viene definito “secondary ticketing”, perché quei ladri di emozioni non sono ancora riusciti a intrufolarsi nelle prevendite esclusive per i membri del Backstage With JBJ.
I Bon Jovi sono tornati più in forma che mai, e io canto Hallelujah.
Dio benedica questo casino!
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