Bologna Violenta
Utopie e Piccole Soddisfazioni
(CD, Wallace Records, 2012)
noise
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Il Trevigiano Nicola Manzan trapiantato a Bologna è la persona che si cela sotto lo pseudonimo di Bologna Violenta, progetto d’avanguardia per un’artista che tra le sue collaborazioni maggiori vanta quella con i Baustelle, Paolo Benvegnù e il Teatro degli Orrori. Il suo è uno stile inconsueto che potrebbe citare Nerorgasmo, Atari Teenage Riot, Negazione, Napalm Deth esprimendo con la sua musica ironia, cinismo e disagio interiore.
Utopie e Piccole Soddisfazioni è il terzo album di Bologna Violenta formato da 21 tracce brevi che compongono un’ensemble teatrale che per volere dell’artista è volutamente grottesca nelle parti inconsulte delle chitarre, quando si contorcono furiosamente con i campionamenti elettronici, e piena di phatos nei frammenti grevi dominati dagli archi, decisamente il fiore all’occhiello di questo lavoro.
L’incipit iniziale sembra partire bene con un bell’arpeggio sopra il discorso sull’Italia fondata sul lavoro e poi la chitarra distorta che crea attesa per quello che potrebbe essere un bell’album di rabbia e contestazione rivolta verso la società odierna. Ma quando si lancia Vorrei Sposare un Vecchio si fa largo la delusione mentre le chitarre grind-core mi lasciano impietrito. Vado avanti immaginando faccia solo parte di un momento che anticipa qualche brano doloroso ancora da assaporare, ma le canzoni non decollano come speravo.
Brani strumentali, talvolta con del recitato, citazioni cinematografiche. Alla quinta traccia, Costruirò un Castello per Lei, c’è tutta la summa di questo lavoro, esecuzioni elettriche velocissime e fragorose, archi che regalano la parte più armonica nell’amplesso orgiastico di questo concatenarsi di suoni, cori da film horror alla Fulci/Argento. Altre sinfonie nervose e poi a sorpresa Valium Tavor Serenase dei CCCP (cantata da Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids).
Evidentemente non ho capito molto di questo album, non è il mio genere, non è roba che definisco proprio musica, ma faccio il mio lavoro e mi ascolto tutto il disco per bene. Mi fa sorridere Remerda con un bel motivo medioevale che fa zapping con i chitarroni e la voce narrante che ci racconta di un politico mangiato dal popolo, roba che troveresti adatta in un disco di Elio. A fare da intervallo ci sono dei gradevoli pezzi di violino come Intermezzo, ma l’ascolto continua ad essere indigesto e fastidioso.
Album per pochi, pochissimi eletti, roba che la maggior parte ascolterà per rispetto dell’artista una sola volta e poi lo metterà via. L’album dura una mezzoretta, compromesso ragionevole, e verso la fine la durata dei brani si allunga a due minuti e mezzo, con l’ultimo pezzo di ben cinque minuti: un Finale Con Rassegnazione, a dirla giusta. Autoironia, applausi, si cali il sipario.
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