Arctic Monkeys
Tranquillity Base Hotel and Casino
(Domino)
indie, lounge pop
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Che il sesto album in studio degli Arctic Monkeys sarebbe stato qualcosa di “nuovo e diverso”, questo si sapeva già. Non solo perché negli anni la band inglese ci ha abituato a repentini cambi di sonorità, ma soprattutto perché sin da quando hanno iniziato a trapelare le prime anticipazioni, insieme alle date del tour e alle varie partecipazioni ai festival estivi, lo stesso Alex Turner aveva dichiarato che questi brani erano stati composti al piano perché “la chitarra non mi portava più da nessuna parte”.
Detto così potrebbe suonare nefasto e apocalittico per chi ha incentrato la sua carriera su riff imperanti e ammiccanti; in realtà è da considerarsi come un avvertimento ai fans – che potrebbero rimanere delusi aspettandosi un AM 2.0 – e ai non fans, che potrebbero invece apprezzare la nuova svolta. Di sicuro è un monito di quanto sia importante non fermarsi alle apparenze: Tranquillity Base Hotel and Casino è un album da approcciare con un orecchio e una mente scevri da pregiudizi, che saprà regalare all’ascoltatore paziente più di una sorpresa.
Diciamocela tutta, l’incedere vagamente Lennoniano e fortemente stiloso di alcune tracce di AM lasciavano già presagire una certa deriva. Ma in Tranquillity Base Hotel and Casino tutto è amplificato, quasi a diventare volutamente grottesco.
Fin dall’inizio, con quella dichiarazione d’amore e d’intenti di Alex Turner in Star treatment (“I just wanted to be one of The Strokes, now look at the mess you made me make”), il mood è da subito molto ricercato, i testi sempre articolati e didascalici, la voce in bilico tra il cantato e il recitato.
Alex Turner gioca a fare il crooner (ma con le chitarre, seppure in secondo piano) e dà a questi pezzi un taglio decadente, perfetta colonna sonora di una Hollywood ormai in declino, dove la fantascienza e la tecnologia vanno a braccetto con ambientazioni à la Kubrick.
Il tappeto musicale è super essenziale; le chitarre hanno fatto un passo indietro a favore di qualche synth e di linee di basso (ancora una volta) dannatamente efficaci. Tutto fluisce in una sorta di continuum, come se si trattasse di un concept album (e forse lo è), tanto che sembra davvero di trovarsi dento al Tranquillity Base Hotel and Casino, un po’ come se ci si trovasse al Bates Motel. La forza di questi nuovi brani sta proprio nel loro essere fortemente cinematografici e nel saper creare ogni volta dei mini cortometraggi, che spaziano dal poliziottesco alla fantascienza.
Mille le critiche che hanno seguito l’uscita di questo disco: sembra il lavoro solista di Alex Turner (che, bisogna dirlo, una volta di più ha curato in modo maniacale ogni aspetto della realise, artwork di copertina incluso), l’ego del cantante degli Arctic Monkeys ha raggiunto il suo apice, tanto che sembra che canti solo per autocompiacersi, fino all’ovvio, quanto banale cliché del ‘hanno tradito i loro fans’. Sì, è vero, mancano i pezzi radiofonici, i ritornelli che ti restano in testa e le ballad d’effetto.
Non ci sono delle tracce che spiccano davvero sulle altre (ad eccezione forse di The Ultracheese e Golden Trunks), ma c’è omogeneità, spessore e il suono di una band che non ha paura di osare e sperimentare cose che magari non sono nelle sue corde solo per non urtare la sensibilità del proprio pubblico. E che – ça va sans dire – se la cava egregiamente in qualsiasi ambito decida di muoversi. Resta la curiosità di vedere come dal vivo questi brani troveranno il loro posto in scaletta accanto ai grandi – e più ritmati – classici come Teddy Picker.
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