Primavera Sound Festival
30 maggio – 1 giugno 2024
Barcellona, Parc del Forum
live report
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Da tantissimi anni uso il Primavera Sound Festival come una sorta di termometro delle tantissime sfaccettature che animano il mondo della musica, che – seppure con pesi diversi – trovano tutte posto nei 30 ettari (300.000 metri quadri!) del Parc del Forum di Barcellona.
Fluido, ma non troppo: le (apparenti?) contraddizioni del Festival
Il processo di coachellizzazione del festival è ormai cosa fatta. La moltitudine di gente che affolla la manifestazione è drasticamente spaccata in due. Gli under 30 che – immagino – avranno passato notti insonni a studiare i vari outfit che hanno sfoggiato, quasi sempre a sottolineare (anche) orgoglio LGBT+ e, soprattutto, una fluidità sessuale che è manifestata/esibita sia in platea e sia sul palco (Troye Sivan e le fellatio fatte e subite).
Under 30 a cui davvero importa più nulla che poco se sopra il palco si suoni veramente o si metta in scena una sorta di pantomima, uno spettacolo che è uno show e non un vero concerto (ne avevo parlato anche raccontandovi il Primavera Sound 2023, qui).
E poi ci sono gli altri, a cui vedere imbracciare una chitarra, pestare una batteria, pizzicare un basso o accarezzare una tastiera importa eccome.
In questo senso il Primavera Sound non è fluido manco per niente: sono due mondi che s’incontrano solo nel programma del festival, ma sono due pubblici distinti e diversi, destinati solo a sfiorarsi, vivendo pacificamente fianco a fianco, ma continuando a non capirsi.
Le chitarre sferraglianti (e quelle delicate)
A far ruggire e sferragliare le chitarre ci hanno pensato su tutti i Deftones. Chino Moreno appare in grandissima forma e si presenta sul palco incappucciato. Ci metterà poco a liberarsi della felpa, giusto il tempo che i fotografi lascino il pit, per scatenarsi definitivamente e farci ricordare, con i suoi 4 complici, che i Deftones sono fra i pochi sopravvissuti del nu-metal. E a ragione! Insaccano 16 brani presi da un po’ tutti i loro album, lasciando fuori praticamente solo il loro disco omonimo. È loro tradizione fare dal vivo anche una cover insospettabile (nel recente passato era toccato anche ai Depeche Mode) e stasera omaggiano gli Smiths con Please, Please, Please Let Me Get What I Want. Monumentali.
Gli Arab Strap pagano pegno per aver suonato in un palco forse troppo grande per loro, con troppa luce (ore 19), ma soprattutto con una performance vocale di Aidan Moffat davvero mediocre.
Così come le Mannequin Pussy: grande presenza scenica, un repertorio musicale di tutto rispetto, energia da vendere, ma Colins Rey Regisford deve decisamente imparare a cantare meglio di così.
I Blonde Redhead, invece, algidi e zeppi di dissonanze come al solito, ci ricordano quanto l’indie dei tardi anni ’90 e dei primi anni Zero gli deve. I gemelli Pace ormai hanno la chioma bianca e anche Kazu Marino (l’unica del trio che si degna di ringraziare e salutare il pubblico) ha perso la sua sensualità, ma il loro concerto lascia soddisfatti.
The National: agli americani tocca lo slot più lungo di tutto il festival, a loro infatti sono destinate due ore. Forse il ruolo di headliners è un po’ troppo ingombrante per gli americani, ma se la cavano benissimo con un set che è una sorta di best-of ben più cattivo di quanto visto due anni fa sullo stesso palco, con arrangiamenti più a base di chitarre e decisamente meno dedicati ai fiati (per fortuna!).
PJ Harvey ha suonato i suoi 75 minuti davanti a un pubblico devoto e non curante della pioggia battente. L’inizio del suo set, dedicato al nuovo album, ha fatto mal presagire, ma poi… un rapido cambio d’abito, il ripescaggio del meglio del suo repertorio e… il concerto è volato verso alti lidi.
Per ballare ci vogliono i francesi
Da un punto di vista squisitamente personale, mi sono divertito tantissimo con L’Impératrice e la loro vintage-space-pop-cosmic-disco. Attivi sin dal 2012, i 6 francesi ci hanno fatto ballare incessantemente approfittandone per presentare ben 5 brani dall’imminente nuovo disco, per fare un meddley tra la loro Voodoo? e Aerodynamic dei Daft Punk, divertendosi con coreografie d’altri tempi, jam strumentali, improbabili tutine luminescenti e ritmi contagiosi. Davvero bravi.
Passare dall’Impératrice ai Deftones e da loro ai Justice, nella stessa sera, di seguito, in scioltezza: partecipare al Primavera Sound significa anche questo. il duo francese non si capisce bene cosa faccia sul palco (poco o nulla), ma il loro è un dei più light show più belli in circolazione e il loro set è zeppo di citazioni/campionamenti da film horror. Impossibile stare fermi per un’ora e un quarto in cui mescolano, rimescolano, autocitano, abbandonano e riprendono un po’ tutto il loro repertorio, tra lampi di luce, impalcature semoventi, cortine fumogene, luci stroboscopiche e altre diavolerie. Alle 3 di notte quando finiscono, siamo tutti stanchissimi ma con un sorrisetto stampato in faccia che la dice lunga.
Le situazioni imbarazzanti
I due momenti più imbarazzanti del festival, per ragioni diverse, sono in quota ai Dogstar e a Lana del Rey.
I Dogstar sono un terzetto californiano messo in piedi da quelli che sembrano degli impiegati che la sera, invece di bere birra sul divano, si divertono a suonare in un garage canzoni proprie che somigliano-a-qualcos’altro (U2 in testa) o cover (stasera è toccato a Just Like Heaven dei Cure). C’è però il piccolo dettaglio che al basso c’è Keanu Reeves. Urla, gridolini, sorrisi, applausi e obiettivi fotografici sono tutti per lui. Personalmente provo quasi pena per i suoi sodali, che fanno del loro meglio nel disinteresse generale.
Forse non capirò mai il perché del successo di Lana del Rey. Gioca a fare la diva anni ’60, con tanto di parrucca. Si presenta sul palco con imperdonabile ritardo, quasi imbambolata, un trionfo di chirurgia plastica, distaccatissima dalla folla sterminata accorsa da ogni dove solo per lei, con ragazzini accompagnati dalle madri che la aspettavano sotto palco da più di 5 ore e a cui alla fine si concederà scendendo dal palco per un lunga sequela di selfy d’ordinanza. La performance vocale è ottima: quella delle sue coriste. La sua voce: non pervenuta o quasi, assai flebile, col sospetto di frequenti interventi tecnologici e a cui lei a volte rinuncia puntando il microfono verso il pubblico adorante.
Shoegaze, Dream-Pop e Dreamgaze stanno mostrando la corda?
Se prendiamo per buono quanto visto al Primavera Sound, il fortunato revival di certe sonorità sognanti anni ’90 si sta drammaticamente esaurendo. Gli Slow Pulp hanno fatto probabilmente il concerto più affollato della loro carriera. Simpatici, carini, emozionati, bravi: le loro canzoni sono però poco incisive.
Va decisamente meglio con gli americani Crumb, forti di derivazioni space-psych espresse con un profluvio di synth.
Che altro?
Romy degli XX ormai fa techno; The Last Dinner Party hanno da poco fatto uscire il loro album d’esordio, ma sembrano già dei veterani e sicuramente cresceranno ancora; al set di Monolake non sono riuscito ad entrare (era pienissimo!); sarei stato curioso di dare almeno una sbirciata a Liberato, ma districarsi nel fitto labirinto del programma del festival è complicato; la franco-spagnola La Zowi è probabilmente quanto di più volgare e inutile abbia mai visto (per soli quindici minuti, poi sono scappato a ripararmi dalla pioggia) , i baschi Lisabö sono sempre una garanzia, e poi… e poi…
Sulla logistica c’è qualcosa da rivedere
I volumi delle Bikini Kill hanno ammazzato il set degli American Football, funestato anche da numerosi problemi sul palco; la Boiler Room è davvero molesta per gli stage Plenitude e Steve Albini (sì, quest’anno un palco era dedicato al compianto musicista/produttore) infastidisce sia acusticamente e sia per le lunghe file che compromettono la viabilità dell’area; a Mordor (l’area dei due palchi principali, così chiamata dai festivaleros veterani a causa della sua distanza dalla zona storica del festival) il deflusso dai concerti principali ha assunto logiche difficilmente comprensibili, causando più di un mugugno.
I numeri
I numeri sono importanti, soprattutto per chi il festival lo organizza. 29.000 persone per il mercoledì (la giornata pre-festival capitanata dai Phoenix), 60.000 il giovedì (Deftones e Justice), 71.000 il venerdì (Lana del Rey e The National) e 61.000 il sabato (PJ Harvey, SZA, Charlie XCX).
Molto easy l’approvvigionamento delle bevande, come al solito molto (troppo) affollati gli stand food (ma al primavera è possibile portarsi il cibo da casa e i veterani si muniscono preventivamente di bocadillos). A occhio, probabilmente quest’anno erano di meno i servizi igienici disponibili.
Conclusioni
Lo dicevamo anche lo scorso anno, il Primavera Sound è in un momento di transizione, ma lo è anche il mondo della musica stesso. I più giovani sono completamente disinteressati al rock, ma i diversamente giovani hanno le tasche sufficientemente gonfie per tenere in vita band ultra-veterane. I maxy-schermi sono ormai in verticale e certi spettacoli sono messi in piedi per essere instagrammabili (la pur brava Mitsky, in programma la festival, arriva dritta-dritta da TikTok); i più giovani bramano solo il grande evento, chi ha superato gli anta invece continua a frequentare i club e al Parc del Forum presidia soprattutto i palchi più piccoli.
Insomma, tutto molto fluido, tutto ancora da definire.
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