Primavera Sound Festival
Barcellona, Spagna, Parc del Forum, sabato 28 maggio 2011
live report
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Calcio vs Musica.
Sono in tantissimi a vestire non più le magliette delle band preferite, bensì la divisa del Barcelona, la squadra di calcio che da qui a poche ore vincerà la Champions tra il tripudio generale (tranne quello dei miei amici madrileni qui in trasferta!) e le dediche e i complimenti di molte band.
Agli organizzatori del Primavera Sound non resta che montare uno schermo televisivo gigante e lasciare che musica e calcio si fondano per una festa generale, lasciando però agli Einsturzende Neubauten il compito di incendiare (con le scintille dei loro attrezzi metallici) i tantissimi che alla partita hanno scelto loro. Blixa e soci non sono legati a nessuno scopo promozionale e si prendono un’oretta per organizzare una specie di greatest hits a base di omaggi a Marinetti (padre del futurismo) e vari terrorismi sonori. Il palco, come al solito, è ingombro di cincaglierie e stranezze di ogni tipo: elastici, sbarre di ferro, trapani, fresatrici, turbine, oggetti costruiti ad hoc. Blixa la fa da mattatore, ma tutta la band è amalgamata all’unisono che è un piacere. Vere e proprie bordate sonore per ricordare a tutti che i padri della musica industriale sono loro e non ce n’è per nessun altro. Barden (che ha lungo ha militato nei Bad Seeds di Nick Cave come chitarrista) lancia qualche battuta sull’evento che si svolge in contemporanea, ma probabilmente i 10.000 e passa radunatisi al Ray-Ban sono una delle platee più grosse davanti a cui si sono esibiti i suoi Einsturzende. Si preoccupa per il pubblico, chiede se la musica non sia troppo alta, ma noi, assiepati lì sotto, non chiediamo altro che ci buchino i timpani. E gli Einsturzende Neubauten ci accontentano. (Voto: 4,8/5).
Qualche buontempone nel primo pomeriggio mette in giro la chiacchiera che i Mogwai non riusciranno ad arrivare a causa dei disagi causati al traffico aereo dal vulcano islandese. Nulla di più falso. Gli scozzesi, con una puntualità svizzera, si presentano sul Llevant stage a mezzanotte e un quarto, come da programma, e ci regalano uno dei concerti più lunghi del Primavera Sound, 80 minuti. E’ il tempo che gli occorre per suonare buona parte del loro recente Harcore Will Never Die, But You Will più New Paths to Helicon (incantevole come sempre), Mogwai Fear Satan (mozzafiato anche stavolta) e Bat Cat, robusta come non mai e messa in chiusura di concerto. Con un ospite di cui non ricordiamo il nome (violino e voce, chiediamo scusa) i Mogwai suonano un concerto perfetto, senza sbavature, suonato con grandissima classe, anzi, da fuoriclasse quali sono. Il problema è che buona parte del pubblico vuole sentirli prodursi negli assalti sonori a base di distorsioni e feedback, più che nelle canzoni del nuovo disco, che lasciano ancora una volta l’impressione che il gruppo stia cercando disperatamente di uscire dal clichet piano-forte che è il loro marchio di fabbrica e che comincia a stargli un po’ stretto. (Voto: 4,4).
Giornata ricca di emozioni forti, oggi. In pieno sole i Soft Moon (prodotti dall’etichetta del boss dei Blank Dogs) ci hanno deliziato col loro post-punk scurissimo, una specie di miscela di Bauhaus e psichedelia, fatta da tastiere, drum machine, basso ultra-ossessivo e chitarre in acido. Sono in tre, sembrano almeno il doppio. E sono davvero bravi (Voto: 3,8/5).
Subito dopo di loro le californiane Warpaint, quattro ragazze prodotte da Frusciante (Red Hot Chili Peppers), con i piedi in America ma col cuore nell’Inghilterra della 4AD dei bei tempi andati. Cure, Cocteau Twins e un po’ tutto il post-punk/shoegaze tra le loro influenze. Alla voce s’alternano in tre, ma sono le lunghissime divagazioni strumentali a mettere davvero i brividi in un concerto che sfiora la perfezione esecutiva, ma che purtroppo non risulta all’altezza per incisività ed emozione nelle parti cantate, che sfigurano rispetto alle parti strumentali, in grado anche di trascinare il pubblico in applausi a scena aperta. (Voto: ⅘).
Per prendere posto per gli Album Leaf (personalmente uno dei gruppi che attendevo di più), ascolto il finale di Phosphorescent e la sua band: mi viene voglia di recuperare i suoi dischi.
The Album Leaf, una delle delusioni più cocenti dell’intero festival. Probabilmente le mie attese erano altissime anche e soprattutto alla luce di uno dei dischi che ho ascoltato di più nell’ultimo anno, A Chorus of Storytellers. James LaValle (ex Tristeza, spesso ospite dei Black Heart Procession, con Pal Jerkins che gli ricambia il favore scrivendogli i testi) si fa accompagnare da un quartetto d’archi e da un polistrumentista (anch’esso spesso al violino) già visto in azione live proprio con i BHP. Lui invece si divide tra tastiere, computers, chitarra e voce. Il computer. E’ stato il problema maggiore di questo concerto. Non è che ci stupiamo più, ormai, se tutta la parte ritmica parte da un hard disk, ma proviamo decisamente fastidio quando il suono che ne esce è davvero troppo compresso. A Chorus of Story è poi un gioiello soprattutto di produzione (con lo zampino dei Sigur Ros) e in questa versione live rimane solo la semplicità/fragilità delle sue melodie. (Voto: 2,5/5).
Per PJ Harvey, ovviamente, c’è il pienone delle grandi occasioni. Vestita di bianco e col capo piumato, il suo spettacolo e le sue canzoni sono assolutamente inadatte alla grande platea di un festival; la sua musica, ormai priva di qualsiasi impeto rock, dovrebbe essere suonata in uno spazio al chiuso e raccolto e stasera per lei il volume è addirittura troppo basso. (Senza voto). Per cronaca, il suo merchandising era uno dei più cari.
Dj Shadow è di casa sui palchi spagnoli e ogni volta soprende. Lo avevamo visto al Summercase, tre anni fa, manipolare contemporaneamente quattro giradischi. Stavolta, invece, sul palco c’è solo una enorme sfera, con un schermo sulla quinta del palco. Sfera e schermo sono inondati di proiezioni stranianti e velocissime, si autocompletano in flusso che arriva dritto alla coscienza, prima che alla vista. Dalle casse arriva la miscela di hip hop destrutturato e rivoluzionato a cui ci ha picevolmente abituato Dj Shadow, fintanto che la sfera si apre e rivela che al suo interno, come già sospettavamo, c’è proprio il “nostro” e la sua immancabile attrezzatura di turntables. Davvero spettacolare. (Voto: 4,3/5).
Un’ascolto veloce agli Holy Ghosts conferma l’impressione che avevamo di loro, ovvero che siamo alle prese con una macchina da festival (in grado di assicurare divertimento) che però non sposta di una virgola il pop anni ‘80.
Per noi il Primavera Sound 2011 finisce qui, con la caviglia di Ivan Masciovecchio (infortunato su un campo di calcetto una settimana fa) ormai livida, ma con la sua macchina fotografica per fortuna comunque piena, e con Vincenzo Riggio che come ogni anno abbandona i suoi redattori di area metal per gettarsi in una full immersion indie. Tutti e tre sappiamo già che domattina, prima di partire, ci scambieremo la promessa di riorganizzarci anche per il Primavera Sound 2012.
La prima parte del live report.
La seconda parte del live report.
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