Primavera Sound 10
Barcellona, 27 maggio 2010
live report
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Il Primavera Sound è diventato, nel corso delle sue dieci edizioni, una specie di “marchio di fabbrica”, più che altro una “garanzia di qualità”. Consolidando anche quest’anno la sua partnership col festival dallo spirito affine All Tomorrow’s Parties e col magazine Pitchfork, al Primavera Sound si va a colpo sicuro, per godersi un condensato della stagione indie, per scoprire nuovi gruppi o per (ri)ascoltare alcune vecchie glorie del passato.
Un po’ di numeri
Dalle dichiarazioni di Gabriel Ruiz, l’organizzatore del Primavera Sound, tiriamo subito fuori un po’ di numeri: 32.000 persone presenti giovedì, 40.000 venerdì e 37.000 sabato, il maggior successo di pubblico di tutte le dieci edizioni del Primavera Sound. Tra chi ha raggiunto il Forum del Barcellona si conta il 35% di stranieri, inglesi e francesi su tutti, ma anche tanti italiani. 7 palchi principali, 240 concerti di 194 gruppi/artisti diversi (alcuni hanno suonato due volte, anche in acustico in un piccolissimo spazio o gratis al Parc Gruell). Difficilmente calcolabile, invece, la quantità di bevande alcoliche consumata nella “tre giorni”, ma sono sicuro che il numero dei litri spaventerebbe chiunque. Automobili: pochissime; al festival si viene in metropolitana (che lascia a meno di 200 metri dall’ingresso del festival) o in bicicletta. La metro funziona fino all’1 di notte e riprende alle 5 del mattino, ben prima dello spegnimento degli amplificatori, che macinano watt su watt sino almeno alle 6; ma il sabato notte i barcellonesi possono prendere il metrò 24 ore e comunque l’organizzazione della kermesse catalana ha approntato un comodo servizio pulman nell’orario di non funzionamento dei mezzi pubblici. Chi ha più bisogno dell’auto?
La location
Il Forum di Barcellona è una struttura che noi in Italia ci possiamo solamente sognare: in buona parte alimentato ad energia solare, seppure al centro di polemiche in quanto sottoutilizzato, per il Primavera Sound è perfetto. L’Auditorium ha 3000 posti al sedere al chiuso, per ospitare concerti come quello dei Low, ad esempio; il palco Vice è il più distante dall’ingresso, piccolo ma non troppo, platea e gradinata per ospitare il pubblico di performances non in grado di richiamare fiumi di gente; il palco ATP, anch’esso con gradinata laterale, è quello che più ha mostrato la corda, subendo problemi di sovraffollamento per parecchie esibizioni; il palco Adidas è la novità di quest’anno ed è dedicato a gruppi spagnoli emergenti; il palco Pitchfork è l’unico (a parte l’auditorium) al coperto, non ha posti a sedere ed è perfetto per esaltare i feedback delle chitarre; il vero gioiello è il palco Rayban, enorme, in riva al mare, con una grande gradinata di fronte al palco e il miglior impianto audio del festival (ne riparleremo); il palco San Miguel, il principale, per far riposare le stanche membra dei festivaleros ha una piccola zona prato moooolto in fondo, ma soprattutto lo ricorderemo per il suo impianto audio sottodimensionato e per essersi riempito all’inverosimile per i Pixies.
La Legge del Sacrificio
Se date un’occhiata al programma (www.primaverasound.com) sarà facile capire come mai come per questo festival vale la legge del sacrificio: in una manifestazione così le sovrapposizioni di orari sono inevitabili e bisogna essere disposti a sacrificare qualcosa. Il frutto di quello che vi racconteremo, quindi, nasce da scelte dolorose, dalla necessità di divertimento da soddisfare, da questioni di opportunità (mi ricapiterà facilmente di vere tizio dal vivo?) e dal mood del momento.
Insomma, ecco com’è andata.
Giovedì 27 maggio 2010
Per me il festival comincia alle 18 con la reunion degli scozzesi Bis (chi si ricorda di Sonoria? Li vidi dal vivo anche lì, nel ’95). Hanno perso solo i capelli, mentre la loro verve e la loro divertente miscela di new wave-dance-power pop va giù come un bicchiere d’acqua: This Is Teen C Power, Kill My Girlfriend, Eurodisco, i singoli storici ci sono tutti e si meritano il pieno d’applausi. E’ una reunion-spot o dobbiamo aspettarli di nuovo in pista? Personalmente … spero nella seconda che ho detto.
I Monotonix, manco a dirlo, non suonano sul palco ma in mezzo al pubblico: zauri quanto basta e matti da legare anche troppo, il loro garage rock sguaiato diverte senza mai sorprendere, tanto sappiamo già che il cantante fa metà dello show in body-surf o appollaiato su un tamburo a sua volta tenuto miracolosamente (e pericolosamente) in equilibrio sopra le teste dei malcapitati che si sono avvicinati troppo alla band.
The Fall: Mark E. Smith mostra tutti i segni del tempo, mentre la sua giovanissima nuova moglie-tastierista sfoggia un trucco pesantissimo e gli fa da alter-ego. Suonano esattamente come ci si aspetta da loro, con ritmiche ossessive, Smith che recita più che cantare e chitarre che hanno segnato per sempre il modo di suonare il post-punk. Smith non dice una parola più del necessario, se ne sta da una parte, quasi immobile e senza regalare neanche un mezzo sorriso, a confermare la sua fama di Mr Antipatia. Bravi, ma sentiti oggi … alla lunga stancano. Da segnalare che è stata una delle peggiori esibizioni al palco san Miguel quanto a qualità audio, che addirittura in alcuni momenti andava e veniva da un canale. Mano a mano, col passare delle ore e dei giorni, la cosa è migliorata, ma è un impianto sicuramente da rivedere.
Grandissima curiosità attorno agli The XX, per diverse ragioni. Mentre il loro disco mi aveva favorevolmente / moderatamente impressionato, nutrivo forti dubbi sulla tenuta di una simile proposta musicale alla prova del live. E invece … e invece, davanti a una folla enorme e per di più sotto una pioggia mai troppo fastidiosa (ma pur sempre bagnata!) il loro spettacolo non solo ha retto benissimo, ma ha addirittura acquistato in atmosfera. Il trio suona percussioni elettroniche (che l’impianto del palco Rayban restituisce con bordate di ultrabassi), chitarra e basso, la cantante ha una voce spettacolare, Crystallized e Basic Space probabilmente i momenti migliori del concerto, insieme a Do You Mind, cover di Kyla. Sì, è vero, gli arpeggi di chitarra rimandano ai primi Cure; sì, è vero, un po’ tutte le atmosfere degli The XX sono di seconda mano, seppure apparecchiate in maniera nuova e con molti fiocchetti, ma tanto ormai nessuno inventa più niente, o no? E allora tanto vale godersi le loro raffinatezze senza troppi problemi.
Una corsa al palco ATP per sentire il finale del concerto degli UI (di cui negli anni ’90 consumavo i dischi) e del loro post-rock con doppio basso ed acrobazie tecniche a profusione. Dopo di loro ci sono i Tortoise, che stasera riescono a farmi pentire di essere sorbito il lungo cambio palco per ascoltarli scegliendomi un’ottima posizione: suonano per loro stessi, a volte con doppia batteria, sempre più pregni della lezione dei primi King Crimson e sempre più lontani dalle atmosfere di Millions Now Living Will Never Die, che avevano fatto innamorare mezzo mondo ed esplodere il fenomeno post-rock.
I Wild Beasts riescono a farmi andar via a gambe levate dal palco Pitchfork nel tempo di tre canzoni (che non si negano a nessuno, che diamine!)
The Big Pink confermano il buono che avevano dimostrato nel loro disco dello scorso inverno, ma la loro miscela musicale rimane troppo direttamente legata a My Bloody Valentine, Jesus & Mary Chain e Spacemen 3, con un uso dell’elettronica alla M83 e col coraggio di osare quello che non osano i Black Rebel Motorcycle Club. Nell’economia di un festival come questo il loro show funziona alla grandissima, ma non basta per inserirli tra i momenti clou di questa manifestazione.
Grandi aspettative anche per la reunion dei Pavement, forti di una raccolta appena pubblicata e raggiunti sul palco anche da alcuni membri dei Broken Social Scene (che avevano suonato poco prima sul palco Rayban). Iniziano con Cut Your Hair e Silence Kid, giusto per mettere subito in chiaro che per loro il tempo è rimasto congelato ai primi anni ’90, quando tutti dal loro lo-fi s’aspettavano la salvezza del rock’n’roll. Rimane il forte dubbio che questa reunion, come troppe, sia solo una marchetta per tirare su del denaro facile e che Malkmus e soci non abbiano più nulla da dire, seppure il loro passato rimane glorioso e il loro show compatto e ottimamente suonato.
Io e Vincenzo Riggio, uno dei capisaldi di RockShock nonché compagno di innumerevoli festival, a questo punto decidiamo di dividerci. Mi racconterà meraviglie del concerto dei Fuck Buttons, mentre io sono troppo curioso di vedere in azione i Chrome Hoof. Descriverli è opera per funamboli. Con improbabili vestiti fosforescenti, mettono insieme violino, chitarra, basso, batteria, fiati e una cantante che sembra uscita or ora dal catalogo Motown. Insieme producono una miscela di metal, psichedelia, stoner e derive funky che non lascia indifferenti e spesso lascia stupefatti. Forse un troppo cerebrali, ma davvero bravi.
Per me uno degli eventi di oggi è lo spettacolo dei Moderat, ovvero l’indie-(techno)-tronico Apparat + i minimal techno Modeselektor, tutti berlinesi. Dal vivo Apparat si divide tra macchine, voce e chitarra, mentre i due “soci” rimangono ancorati ai loro computers e sintetizzatori. La loro
elettronica è un esercizio di stile tanto raffinato quanto da brivido, che esplora i meandri del dubstep, accellera verso la techno, semplifica tutto in salsa minimal e non dimentica di citare il reggae. Tagliato impietosamente il loro set in quanto partito in ritardo per problemi tecnici (in parte persistiti per tutto il concerto), dal vivo partono sempre in maniera molto fedele all’album, salvo poi concedersi divagazioni/esplorazioni che ci piacerebbe riascoltare ancora. Ed ancora. Ed ancora.
Sono le 4 e mezza e mancherebbe ancora qualcosa da ascoltare, ma la stanchezza non solo è forte, ma ci fa anche (già!) preoccupare: siamo solo al primo giorno!
Leggi la seconda parte dell’articolo (Pixies, Wilco, Marc Almond, Japandroids, Yeasayer, The Bloody Beetroots e Diplo)
Leggi la terza parte dell’articolo (Pet Shop Boys, Gary Numan, Charlatans, Florence and the Machine, Orbital, Antlers)
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