Piqued Jacks
Synchronizer
(INRI)
rock
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L’utilizzo della lingua inglese e i suoni che riportano a un rock che oltreoceano, ma anche in Inghilterra, trova terreno ampiamente fertile non possono che far accrescere la voglia di successo dei nostrani Piqued Jacks, giunti con Synchronizer, al terzo album della propria carriera.
Fa sempre piacere come in Italia ci siano molti gruppi che stiano cercando la via dell’internazionalità per raggiungere maggiori consensi e grande diffusione.
Le undici tracce contenute in questo lavoro sono perfette da un punto di vista formale.
La produzione è splendida, grazie alla presenza di personaggi come Julian Emery (Nothing But Thieves), Brett Shaw (Florence +The Machine) e Dan Weller (Enter Shikari), così come risulta di spessore l’impatto sonoro che viene fuori ogniqualvolta si inserisce il CD nel lettore.
La musica, che a volte ricorda i The Calling, in altri momenti i migliori Coldplay e in altri ancora qualcosa dei 3 Doors Down, si fa ascoltare senza soluzione di continuità, grazie a un pugno di singoli che avrebbero tutto per poter sfondare nelle classifiche di mezzo mondo.
Non è un caso che quando si ascoltano tracce come Spin My Boy, Hello? ed Elephant sembra davvero che la strada per la gloria (eterna o effimera saranno i posteri a stabilirlo) sia lì vicino, tangibile e facilmente a portata di mano.
Il cantato di E- King è spettacolare e affascinante, ma è tutto l’insieme ad andare spedito come un razzo, a dimostrazione di come questa sia una macchina ben oleata.
Fa, inoltre, piacere vedere la presenza di Francesco Moneti (Modena City Ramblers) in Call My Name e Dancers Time, quasi a voler sottolineare un legame con la madre patria che non si può assolutamente rescindere, nonostante questi suoni siano prettamente internazionali.
In sintesi, il terzo disco di una band è sempre quello decisivo in un senso o in un altro.
Le possibilità per fare il grande salto ci sono tutte, perché gli artisti in questione difficilmente devono essere messi in discussione. In caso contrario potrebbe esserci il problema della solita domanda che si fa in casi del genere: meglio averci provato all’estero con tutti gli annessi e connessi, o non sarebbe stato più utile puntare sull’uso della lingua italiana per avere una visibilità che, ora come ora, sarebbe garantita, perché dalle nostre parti nessuno si è avventurato in una scelta stilistica di questo tipo?
Tra qualche anno ne sapremo di più.
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