Pearl Jam
Gigaton
(Monkeywrench records/Republic Records)
rock
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I Pearl Jam, nel corso della loro lunghissima carriera, hanno avuto due fasi. Una scintillante ed ispiratissima che li ha portati a diventare tra le più grandi band del pianeta. Un’altra, invece, decisamente più moderata e tranquilla che ha consentito loro quasi di vivere di rendita, grazie a quanto fatto in passato.
Non è un caso che i live degli americani siano dei veri e propri eventi, popolati da folle oceaniche che attendono quanto da loro prodotto, soprattutto nel periodo d’oro.
Intendiamoci, ci sono alcuni dischi, come l’omonimo o Riot Act, usciti nel nuovo secolo che sono di una grande qualità, ma è altrettanto innegabile che la strada imboccata da Gossard e compagni appare quella di una pensione aurea dove tutto può essere concesso.
Ed è per questo che il nuovo Gigaton si colloca con quanto messo in atto con le loro ultime uscite.
Un lavoro sufficiente, ma non trascendentale. Buono per essere ascoltato quando si è in astinenza da musica di Seattle, ma pronto, poi, ad essere inserito nella propria collezione musicale ad impolverarsi senza troppe esitazioni.
Fatta questa premessa, il nuovo disco, che sarà ricordato, nonostante tutto, in quanto immesso sul mercato in un periodo storico tra i più tragici che si possano ricordare, è un lavoro che viaggia sulla strada della frammentarietà. Ci sono canzoni decisamente di grandissimo impatto come Quick Escape, tosta e pesante, dal ritornello immediato che ti si piazza in testa e che difficilmente va via.
Buono, soprattutto se lo si ascolta tante volte, è il singolo Dance of the Clairvoyants che ha molto dei Talking Heads e della musica disco che andava a New York negli anni settanta. Potrebbe sembrare una bestemmia, ma questa canzone ha un suo perché e risulta un unicum nella discografia dei signori di Seattle.
Piace anche il tiro immediato e rapido di Take The Long Way dove il quintetto sembra essere libero di sfogarsi come ai tempi che furono. Canzone molto veloce, immediata e dal tiro facilmente riconoscibile. Così come appare di ottima fattura il lento Retrogade, malinconico il giusto, dove la voce di Vedder fa ancora la differenza.
Infine, riavvolgendo il nastro, l’opener Who Ever Said appare perfetta come brano di rottura, molto legata agli schemi vincenti degli Who.
Se queste sono le buone notizie, dall’altra parte non si può tralasciare il fatto che ci siano canzoni che in altri tempi avrebbero trovato difficilmente la luce su un disco dei Pearl Jam.
Alright, che è una delle loro classiche ballads, è ben lontana dai picchi creativi che gli stessi ebbero nel passato con brani come Dissident o Nothingman.
Superblood Wolfmoon, altro singolo scelto dai nostri, ha poco o nulla di epocale, ma appare essere un riempitivo come la finale River Cross che fa il verso, in modo negativo, ad un capolavoro come Indifference.
Va un po meglio con il semi-blues di Comes Then Goes in cui ci sono echi dei Led Zeppelin. Tra le canzoni sospese possiamo trovare Never Destination che appare quasi come una forma di riscaldamento dei Pearl Jam prima di provare la set list da suonare in uno dei loro tanti concerti.
Stessa cosa va detta per Buckle Up dove fanno il loro ingresso anche i fiati a fare da contorno alla opaca composizione.
In tutto questo frullatore di idee e composizioni, appare chiaro come i Pearl Jam abbiano cercato di inserire tanti elementi, in modo da rendere questo Gigaton più variegato ed eterogeneo di Lightning Bolt che aveva fatto storcere la bocca a tutti i fan.
Se l’intento era quello di fare meglio rispetto al proprio predecessore, gli uomini di Seattle hanno centrato l’obiettivo, anche se era davvero difficile mettere a segno un colpo peggiore. Se, invece, le attese erano quelle di trovarsi dinnanzi un nuovo No Code (anche se la struttura dei brani ricorda molto il disco del 1996) o Vitalogy, allora si può tranquillamente affermare che bisognerà aspettare, sempre se ci saranno, tempi migliori.
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