Ozzy Osbourne
Ordinary Man
(Epic Records)
heavy metal
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Da quando era stato rilasciato il primo singolo, Under the Graveyard, non aspettavo altro che poter mettere le mani sul nuovo lavoro di Ozzy Osbourne, su quello che si presagiva essere il testamento di una delle più grandi icone dell’heavy metal.
Il Principe delle Tenebre mancava sul mercato discografico dal 2010, quando era stato pubblicato Scream, il primo lavoro senza il fido Zakk Wylde alla chitarra. Sebbene il barbuto guitar hero continui ad accompagnare Ozzy in tour, anche in Ordinary Man, così s’intitola la nuova release del MadMan del rock, le chitarre sono affidate ad altri, ovvero al produttore Andrew Watt e a due special guest: Slash e Tom Morello.
Le pelli sono percosse dal piccante Chad Smith (Red Hot Chili Peppers), mentre al basso troviamo un altro nome noto, quello di Duff McKagan (Guns N’ Roses).
Gli ingredienti per un buon disco ci sono tutti, compresa la partecipazione di Elton John, ma di questo parleremo più avanti.
Ordinary Man si apre con quello che è uscito come secondo singolo estratto, Straight to Hell, un brano che racchiude in sé l’intera carriera di Ozzy Osbourne: riff travolgente, ritmo tirato, cantato tipico dell’ex Black Sabbath e grandioso assolo di chitarra, eseguito in questo pezzo da Slash, come una ciliegina sulla torta. Anche il testo è di forte impatto: “I’ll make you defecate“, in una canzone, non l’aveva mai scritto nessuno.
Avevo il timore che i pezzi migliori dell’album fossero quelli già rilasciati, ma ecco che arrivano All My Life e soprattutto Goodbye, rispettivamente seconda e terza traccia, a farmi capire come il disco si collochi complessivamente su un livello altissimo, sia dal punto di vista compositivo, che da quello esecutivo (forse solo un po’ troppi ritocchi in studio).
Giungo alla title track, la dolce e malinconica ballad che vanta la collaborazione di Sir Elton John. L’intro di pianoforte del Rocket Man è da brividi, così come il testo, un accorato appello di un settantenne che sa di essere ormai vicino alla sua fine e che non vuole morire come un uomo comune. Tranquillo Ozzy, non sei e non sarai mai un Ordinary Man. Il pensiero a cui dobbiamo ormai prepararci, ovvero quello di doverci pian piano separare da tutti quegli artisti che ci hanno emozionato a partire dagli anni ’60 e ’70, è quanto mai straziante. Non siamo pronti a lasciarli andare, ma la consapevolezza che la loro musica rimarrà per sempre, può e deve esserci di conforto. L’assolo di Slash, anche in questo caso, impreziosisce un brano che, già di suo, è una gemma scintillante.
Under the Graveyard, reo delle mie altissime aspettative, è ormai in rotazione da diverse settimane su tutte le radio rock, ed è perciò già diventato un classico del repertorio di Ozzy Osbourne. Il testo riprende quello che è il leitmotiv di tutto il disco, ovvero una sorta di bilancio che l’autore fa della sua vita e di quante volte sia stato sull’orlo del baratro. Cercando redenzione, per una vita dominata da eccessi e sregolatezza, Osbourne realizza che la fine che faremo è la medesima per tutti quanti.
La traccia successiva è Eat Me, che con la sua intro di armonica a bocca, rimanda subito a The Wizard e agli esordi dei Black Sabbath, mentre il resto del pezzo ricorda il sound degli Audioslave. Come si fa a non divorare una canzone così?
Today is the End e Scary Little Greenman somigliano, invece, più all’Ozzy di Black Rain, che a quello dei Black Sabbath.
A Holy for Tonight è affidato il momento ballad della seconda parte del disco, quella che volge verso la fine del long playing. Il brano è bello, funziona, e la melodia del ritornello, un po’ alla McCartney solista, rimane subito impressa.
Ordinary Man sarebbe stato perfetto se si fosse chiuso così e invece no. Probabilmente a causa di Andrew Watt, produttore non solo di questo lavoro, ma anche di quelli di Post Malone. Se era ormai cosa nota che Ozzy avesse collaborato con l’artista americano e con il rapper Travi$ Scott (sì, col simbolo del Dollaro al posto della s) per il singolo Take What You Want, un po’ meno scontato era il fatto di trovarsi il suddetto singolo, e non solo, in questo disco. Sono ben due, infatti, i featuring con Malone che mi accingo, ahimè, ad ascoltare. Non lo scrivo da bigotta o da purista: ben venga il crossover, ma in questo caso la sensazione è che ci si sia spinti un po’ troppo oltre, quantomeno con l’autotune, vera piaga del momento, altro che il Coronavirus. Peccato, perché It’s a Raid partiva bene, con un piglio graffiante ed un ritmo energico e Post Malone non sarebbe stato nemmeno fuori luogo, se non fosse stato per l’abuso del suddetto effetto vocale.
Cosa vuole dirci Ozzy inserendo questi due brani in quello che sarà quasi sicuramente il suo ultimo disco di inediti? Forse che dopo di lui la musica continuerà lo stesso e che prenderà direzioni diverse da quelle a cui siamo tanto affezionati, perché i tempi cambiano e così fa anche l’industria discografica, che ci piaccia o no.
E forse che, in fin dei conti, si sente pronto a lasciare il testimone a qualcun altro, consapevole che il tempo a sua disposizione stia inesorabilmente per scadere.
Su questa Terra siamo tutti di passaggio, ma alcuni se vanno lasciando il segno.
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