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Nick Cave: recensione di Wild God

Wild God è un album necessario, musicalmente complesso, destinato ad ampliare la già vasta platea di seguaci di Nick Cave and the Bad Seeds.

Nick Cave and the Bad Seeds

Wild God

(PIAS)

alt rock, post-punk, no wave, musica d’autore

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Avrei preferito non affrontare questa recensione sul nuovo album di Nick Cave and the Bad Seeds. Dire di non aver apprezzato le tracce che avevano anticipato l’uscita di Wild God è un eufemismo.

Si dovrebbe essere, in certi casi, il più obiettivi possibile, mettendo da parte la propria storia personale e il proprio ego. Come si fa non scivolare sul personale, però, quando si tratta dello “Zio Nick”? Ci frequentiamo, per così dire, da secoli oramai. Lui ora è un più che affermato artista mainstream. Elegante, posato, rassicurante e, calcoli alla mano, la sua conversione precede di decenni le tragicamente note vicende personali. Vicende che avrebbero stroncato chiunque e che invece ce lo hanno restituito più forte, forse migliore, decisamente più umano.
L’era in cui era il “poeta dei bassifondi” è tramontata ormai da molto, molto tempo.

C’è un Nick Cave prima e dopo la raggelante scomparsa del figlio Arthur – purtroppo il primo di una lunga serie di lutti – ma c’è anche un Nick Cave prima e dopo Murder Ballads. Così come esisterà per sempre il Cave che narrava in prima persona i tormenti di un condannato a morte attraverso potenti metafore bibliche in The Mercy Seat. Esisterà un Cave anche dopo questo Wild God, in cui ci parla di rane e della camicia di Kris Kristofferson.

Mi sono avvicinato all’uscita di questo album con diffidenza. Senza grandi aspettative, forse per il timore di una cocente delusione. Ho letto interviste, anticipazioni, “sbobinato” apparizioni in talk show, sono quasi arrivato a “leggere i poeti e gli analisti e cercare nei libri sul comportamento umano”, per prepararmi a quello che a tutti gli effetti è un evento di una portata enorme: l’uscita del nuovo album di Nick Cave (and the Bad Seeds – è bene ricordarlo).

Infine, col cuore appesantito ho accolto con un sospiro Song of the Lake. Non di sollievo.

In effetti ho avuto un certo senso di repulsione. Ma stiamo parlando di Nick Cave e l’ho immediatamente soffocato.

Ora, mentre finalmente scrivo, sono arrivato al quarto ascolto. Con fatica, lo ammetto, eppure quella sensazione è parzialmente evaporata, così come sarebbe capitato al vecchio della canzone, se fosse rimasto sulla riva del lago. Interessante…

Precisamente al minuto 01:30 della traccia che dà il titolo all’album smetto di trattenere il respiro. L’apertura corale è una ventata di aria fresca, ma c’è un problema: è il primo momento in cui la voce del mio australiano preferito si fa da parte, per lasciare spazio alle (splendide) orchestrazioni.

E se, dico se, non sopportassi più la voce di Nick Cave? Credetemi, è un pensiero che atterrisce anche me.

Frogs, presa nel contesto dell’album, non scalfisce l’idea che mi ero fatto all’uscita come singolo. Cave ha dichiarato che rivelerà i segreti nascosti nelle complesse narrazioni di questo album. Probabilmente lo farà attraverso The Red Hand Files. Con un po’ di ricerca ci si può comunque fare da subito un’idea del nesso con Kris Kristofferson.

Già, esiste anche un Nick Cave prima e dopo la nascita del suo blog, che è oramai un aspetto essenziale della sua esistenza come artista. Probabilmente senza i Red Hand Files non potrebbe esistere Wild God. Sono creazioni, o forse  creature, profondamente interconnesse.

Joy è il primo dei tre brani più importanti di un’opera oggettivamente complessa, che richiede molti ascolti per essere apprezzata in pieno. Soprattutto, è la prima traccia in cui il tono della voce di Cave rientra in territori familiari. Tanto da chiedersi quanto sarebbe diverso il mio, personalissimo, giudizio sui primi brani se Egli avesse cantato un’ottava sotto. “Never mind, never mind…”

È un sollievo, eppure non sono sicuro che la gioia sia la sensazione che il brano trasmette: “I woke up this morning with the blues all around my head / I felt like someone in my family was dead”.  Vero anche che a metà del brano lo spettro (di Arthur, è dato supporre) sussurra “abbiamo tutti avuto troppa tristezza, ora è il tempo della gioia” e il viaggio dalla disperazione alla speranza può dirsi compiuto, accolto da voci giubilanti.

Final Rescue Attempt è il brano che compie il miracolo di tenermi incollato all’ascolto per il resto dell’album. Meravigliosa, semplicemente.

Conversion ha un inizio ipnotico, che ti trascina con sé in viscere profondissime finché non arriva il coro gospel a risputarti fuori.

Long Dark Night ha un classico andamento à la Nick Cave, che rimanda ai fasti di Let Love In, e una strofa che ricorda assai da vicino “God is in the House”. Dopo ripetuti ascolti, come sospettavo, si è fatta infine strada nel mio cuore di vecchio fan.

A proposito di cuori, la voce della compianta Anita Lane sul finale di Wow Wow (How Wonderful She Is), a lei dedicata, è un colpo davvero ben assestato. La conclusiva As The Waters Cover The Sea è una sorta di spiritual che mette il sigillo a questo album, destinato senza dubbio ad ampliare la già vasta platea di seguaci di Cave. Qualcuno tempo fa scrisse che Skeleton Tree, uscito all’indomani della morte di Arthur era “il capolavoro di Nick Cave che non avremmo mai voluto ascoltare”. Di certo Wild God non è il suo capolavoro definitivo: di quelli ne abbiamo già avuti almeno una dozzina. È però un album necessario, che sembra concepito per avviare una conversazione a livello globale. Musicalmente complesso e che, ancora una volta, impone di indagare a fondo il senso delle liriche. Che, sopratutto, fa immaginare un futuro che, fino a pochissimo tempo fa, poteva apparire remoto.

Puntini di sospensione.

Ascolta l’album

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