Motorpsycho
Roma, Circolo degli Artisti, 03 giugno 2010
live report
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Ogni volta che penso/ascolto i Motorpsycho, numerose sono le associazioni mentali a balenarmi. Innanzitutto quelle relative alla natura stessa della loro musica: i tanti album pubblicati potevano offrire inizialmente solo un’idea riduttivamente sommaria di quello che era lo stile/marchio di fabbrica della band norvegese. Questo perché sapevano spiazzare costantemente l’ascoltatore tramite incursioni nei generi fra i più disparati della vastissima gamma “popular” (definizione da prendere con le molle in questo caso..).
È in effetti imbarazzante – per me – cercare di definire una volta per tutte che tipo di musica suonano i nostri. Psichedelia? Stoner? Space-rock? Folk-rock? Prog? Hard-rock? Indie? Jazz!? Ci si rende difatti conto che sarebbe forse meglio, prima di tutto, tentare di inquadrare – che è purtroppo lo stupido manieristico doveroso “compito” del critico – quello che la band cerca di fare di album in album, e quindi semplicemente cercare di interpretare le singole opere.
E nonostante tutto, alla fine ci si accorge di una cosa: che i M. risultano misteriosamente sintonici, perfettamente in equilibrio cioè nel loro sfuggire ad una precisissima etichetta (senza aver mai visitato, con questo, la pura sperimentazione) ed essendo riusciti a conquistarsi uno stile proprio oramai caratteristico di quella produzione.
Un’altra cosa che non avevo assolutamente notato prima del concerto è stata la loro contiguità allo stesso tempo reale e ideale con i Grateful Dead.
Lo si nota sia nei “connotati vocali” di Bent Saether, vicinissimi all’estensione timbrica di Garcia, che nell’abitudine della band, sempre più consolidata, a perdersi in certe jam session tipiche della formazione statunitense. E a maggior ragione nell’ultimo album: Heavy Metal Fruit, nonostante le stroncature della critica, e a dispetto di tutte le forme visitate dal power trio in passato, cominciando dai Dinosaur Jr fino ad arrivare, per svolte temporalmente irregolari, ai Black Sabbath o ai Kyuss – che sono pur presenti, anche se diversamente, nel calderone attuale.
Dunque il live. E che dire, tralasciando alcune mie personalissime critiche sulla presunta idoneità del luogo dell’esibizione? Che non potevano ovviamente confutare/assecondare questa loro attitudine ora più forte che mai all’improvvisazione e alla dilatazione sonica, senza dimenticare pertanto di proporre alcuni pezzi classici (ballad o no) d’archivio, come Feel, Vortex Surfer o S.T.G.: con tanto di pubblico appropriatamente in estasi. Mettici in più la simpatia di questi nordici – per un totale di (soltanto) due pause e più di due ore di concerto, che si traduce in: assolo interminabili, riff granitici, drumming instancabile, bassi opprimenti, dissoluzioni/rarefazioni, avviluppamenti; quindi: caos, quiete, un po’ d’ironia, visionarietà e… il freddo (sempre nordico) che solo in pochi hanno avvertito.
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