Matthew Dear
Black City
(Cd, Ghostly International)
elettronica, experimental
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Sembra proprio che la nuova frontiera della musica d’oggigiorno non consista tanto nel fatto di coniare materiale nuovo di zecca, quanto nel saper attingere a vecchie tendenze ed assemblarle in modo nuovo; non si tratta di tirar fuori melodie da un cilindro magico, bensì di scovare ingredienti e giuste combinazioni per stregare chi ascolta. Esperimento, questo, che ha possibilità esponenzialmente più alte di riuscire se si possiede l’asso piglia tutto: l’elettronica.
Strategia o stregoneria? Fatto sta che Matthew Dear ha portato a termine negli studi della sua Ghostly International un lavoro di certo avvolto in uno strano alone, ma che soddisfa sicuramente i requisiti di cui sopra; Black City, quarto album in studio di questo personaggio poliedrico che si barcamena tra le attività di produttore, dj e musicista, è la naturale evoluzione di uno stile che emerge già dei suoi lavori precedenti, ma che, maturando, assume contorni più definiti e personali.
Electropop? Dietro questa prima impressione si scorgono impronte più celate ma comunque rintracciabili: dall’apertura molto “disco” di Little People (Black City), che unita al loop funk di I Can’t Feel, sfocia nell’house dal sapore industriale di You Put A Smell On Me. Eppure c’è un’ aurea indefinibile e lo si avverte: un’indeterminazione positiva, quella che l’originalità porta inevitabilmente con sé.
Forse è per lo svelarsi di una profondità mai raggiunta prima da questo artista che a tratti emerge un’inusuale spiritualità: l’esecuzione di tracce come Slowdance e Honey richiama alla mente la sacralità di un rito religioso. E dove non arrivano le melodie, giunge la voce austera e baritonale di un sacerdote officiante e devoto alla musica quale Dear sa essere.
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