Matt Elliott
Padova, Unwound, 15 Ottobre 2010
live report
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L’apparenza non è la voce, l’aspetto non racconta nulla che la voce sappia fare incommensurabilmente meglio. Le parole come incommensurabilmente non vogliono dire nulla, ma le parole dette da quella voce sono tutto. Le parole devono richiamare qualcuno, devono urlarti dietro il proprio nome. Matt Elliott urlava il nome di tutti.
In queste situazioni gli occhi si tingono di bianco e nero per inerzia, per lasciarsi andare inconsapevoli, inesorabili. Invincibile. Fa uno strano effetto vedere le sue lunghe braccia piegarsi e mordersi, il suo tenersi la guancia, il collo, la tempia con le mani mentre urla, mentre tutto si sovrappone, rigurgita, si stratifica, s’impone all’attenzione, mentre Matt Elliott sembra non faticare e tu, tu che assisti a uno spettacolo di magia nera, di musica nera, di rumore – per una volta nero – a voce animale, nel senso di anima nascosta.
“Volevo dire che ciò che pensi di me in fondo non importa, perché malgrado le apparenze in fondo non si tratta neanche di me. Io sto solo cercando di riassumere una piccola parte di com’era prima della mia morte”, così nel suo Oblio David Foster Wallace. Urlava Matt Elliott le sue canzoni in quello stabile fatiscente affascinante che è l’Unwound di Padova, e non pensavo a nulla, ma le parole erano come di DFW, altro piccolo gioiello nero. Due geni, due mondi separati e neri, due lacrime disegnate sul viso, uno vivo e l’altro morto. Uno silenzioso di parole, l’altro incapace di contenerle tutte, il bisogno di rivitalizzarle e renderle oblio riconoscibile a noi, incapaci di magnificenza, ma inerti eppure felici di riconoscerla, questa colata di nero onirico.
Il giorno dopo il concerto sfoglio dunque Oblio, riconosco la stessa povertà di emozioni che ho riscontrato nei piccoli affreschi acustici di Matt Elliott, poveri perché sono solo loro: il cantautore di Bristol, rinchiuso nel suo angolo fatto di pedali, suoni datati, una sola chitarra discreta e innocente quando lui si piange addosso – vertiginosa quando lui si alza quasi in piedi e cerca di rinchiuderla da qualche parte a calci, e il suo sembra un coro di balcanici in festa eppure così sbronzi da non andare a tempo tra di loro, con noi.
Sono quasi tutti seduti sul pavimento umido i suoi spettatori. Ascoltano in silenzio e lui su quel palco sembra quasi un De Andrè dei giorni nostri, piccolo Faber inglese a cui fischiano le orecchie tutti i giorni, le tue piccole pennellate chirurgiche sull’acustica, la voce profonda e troppo, troppo personale, la poesia che intravedi anche se non conosci parole, l’amore spropositato per l’alcol. E l’anarchia. Il Galeone, storica canzone anarchica, pacifista. Un’interpretazione umile, magistrale, sentita perché sussurrata e composta di calma rabbiosa, trattenuta. Un punto bianco su un palco circondato di nero, di carie.
“Quando sei lì che ti lasci portare come un’onda parli e agisci come se sapessi di essere un’onda nell’oceano, ma in fondo non credi affatto che ci sia un’oceano, E’ quasi impossibile crederlo”. Così di nuovo DFW, così Matt Elliott ha perso la speranza e ha deciso di raccontarcela.
P.S.: Matt Elliot sta per fare rivivere il suo rumorosissimo progetto isolazionista Third Eye Foundation con The Dark, in uscita a fine mese.
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