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Long Gone: recensione di Drowned

I milanesi Long Gone fanno il loro esordio con l'album Drowned, attraverso suoni e atmosfere che rimandano alla scena shoegaze e slowcore degli anni 90, con inserti post-rock, gothic southern e dream-folk a tinte noir.

Long Gone

Drowned

(Liver Productions)

shoegaze, slowcore, post-rock, gothic-southern, post-folk, dark-folk, dream folk, brit folk

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Anticipato dall’uscita dei singoli Losing One e Lost In Confusion, esce l’album d’esordio degli shoegazers milanesi Long Gone intitolato Drowned, edito per Liver Productions.

Con questo primo take discografico, i Long Gone – progetto nato nella periferia milanese a metà dello scorso decennio e composto da Federico Bonuccelli alla chitarra e voce, Luca Piatti al basso e voce, Luca Tadini alla chitarra e voce, Stefano Santamato alla batteria – decidono di avventurarsi nei meandri oscuri di quel patrimonio genetico shoegaze e slowcore dark degli anni 90, attraverso una fitta intelaiatura di dissonanze, riverberi e delay che sfociano nei territori cellophanati, argentei e circolari del post-rock e del post-folk, in ballate eteree, ovattate e languide di un dream-folk a tinte noir e southern, nel romanticismo claudicante e decadente dalla carnagione gotica e in un percussionismo ritmico dal passo processionale e solenne, congiungendo ogni variante strumentale a posture vocali evocative, malinconiche e liturgiche.

Spaziando nel rapporto simbiotico degli opposti e del contrasto, in quel dualismo tra luce e oscurità che sin dai tempi dell’impero persiano accompagna le vicissitudini del genere umano, le dodici tracce di Drowned definiscono un vero e proprio immaginario sonico sospeso, ipnotico e straziante (sulla scia di American Football, Low, Notwist e Black Heart Procession), quando dilatandosi verso melodie evanescenti ed espressioni dalle forme cinematiche, quando aggrappandosi a una densità di registri compressi e cavernosi dall’accento drammatico.

Persi nel vortice delle illusioni (“lost in confusion, drowned in illusion”), nei ciechi dedali della fede e nella percezione di un mondo sottosopra, capovolto, come se i palazzi si riflettessero nell’acqua scambiandosi di posto con nuvole dai colori rosso fuoco (vedi artwork grafico), ci si ritrova, di fatto, catapultati all’interno di una zona grigia dell’anima, tanto imponente quanto fugace e sensibile nel suo volume epidermico, intrappolati in un pantano di emozioni laceranti e nel lento decadimento (“I am going through a slow decay, and I ain’t got the cure”) che consegue le logiche frenetiche di un’attualità cosparsa di assenze e distanze (“we’re losing our heads, looking world’s going mad”).

 

Se da un lato tematiche e atmosfere vengono risucchiate dalle derive ansiogene e claustrofobiche della contemporaneità (“mankind its all dying, when we die who will mind?”) e dalle ferite mai del tutto cicatrizzate del passato, dall’altro emerge la necessità da parte dei Long Gone di allontanarsi dal rumore del caos esterno, dall’oligarchia dei sentimenti, per rifugiarsi in un mondo interiore denso di spiriti e ombre, in una dimensione extracorporea e notturna, andando alla ricerca di uno stato di quiete anestetizzante – tra autocommiserazione, malessere e desolazione – e affidando l’antico vaso della speranza alla volontà delle stelle e del cielo (“we fire our hopes to the sky, so it will rain shooting stars”),

Una tensione sensoriale che raggiunge il suo nadir emotivo nell’epilogo di Blues Procession (“I have lost faith and I’ve lost a friend, who wants to walk next to the dead? No one listens, no one cares, not worth at all, as I’m trying to chase trains I’ll never take”), accarezzando la folle idea di tentare un colpo di stato nei confronti del passato, quale unico modo per riuscire a governare la paura verso l’ignoto.

facebook/LongGone

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