Linkin Park
A Thousand Suns
(CD, Warner Bros Records)
alternative rock
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Si chiama A Thousand Suns ed è il quarto studio album dei californiani Linkin Park.
Per chi, come me, è rimasto affezionato a quelle sonorità che distinguevano questa band al tempo del suo esordio con Hybrid Theory non sarà semplice dover dare un giudizio su questo loro nuovo lavoro.
Ma, forse nel primissimo anno di questo secolo, quello che faceva della vecchia guardia di “discepoli” del nu-metal qualcosa di davvero apprezzabile è stato usato ed abusato talmente tanto da essersi consumato del tutto. E quello che rimane può essere considerato la fine di un’epoca. O l’inizio di un mondo nuovo.
E’ solo grazie a questa premessa che posso iniziare a parlare di queste quindici canzoni. Quindici canzoni, in teoria. Una sola, in pratica. Considerando, quindi, questa nuova fatica nella sua totalità non si può non dire che si tratta di un’opera completa che raccoglie dentro di sé tutti gli ingredienti che potrebbero farne un successo: mixaggio da manuale, produzione impeccabile e tutto quell’impegno che trasuda dalla perfetta omogeneità dei suoni. Un lavoro che vede la crescita ed il cambiamento stilistico di questi sei ragazzi. Cambiamento già apprezzabile ascoltando il singolo di lancio The Catalyst (il video è in questa stessa pagina) in cui quello che è l’essenza che ha sempre caratterizzato la musica di questo gruppo è solo un sottofondo.
Sottofondo su cui cresce un possente lavoro di sintetizzatori con intermezzi, ahimè, ben più simili alla electro-house di fine anni novanta che al rock che tutti noi appassiona.
Certo, The Requiem ci regala una intro soffusa ed affidata ad una voce femminile (?) che riesce ad incuriosire e gli intermezzi tra un brano ed un’altro di sola musica (come The Radiance o Wisdom, Justice and Love) possono risultare piacevoli.
Per il resto sembra quasi un lavoro da intitolare “I 30 Second To Mars che in contrano Jay-Z”.
Forse un lavoro più in linea con la moda del momento. Probabilmente una prova di rinnovamento. Sicuramente un salto nel vuoto. Senza paracadute.
Sarà il legame al passato ma cosa ne abbiano fatto del ritmo di Shinoda e della grinta di Bennington non lo so, fatto sta che, all’ultimo brano (la ballata The Messenger) si rimane con l’amaro in bocca di un pezzo di storia che si conclude e con la segreta speranza che nasca qualcosa di migliore.
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