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Ladytron: recensione di Time’s Arrow

In una retrospettiva anni '80 e '90 alla quale sembra quasi impossibile sottrarsi oggigiorno, i Ladytron, con il nuovo album Time's Arrow, modellano e distillano la propria materia stilistica all'interno di stratificate melodie downtempo in salsa synth vintage.

Ladytron

Time’s Arrow

(Cooking Vinyl, Egea Music, The Orchard)

synth-wave, shoegaze, dream-wave, synth vintage, slowcore, electro-clash

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“Il tempo è una freccia, non si ferma mai e non torna mai indietro… continua ad andare avanti. Non è così Henrietta?”

“Sì, signora Horseman. Credo sia proprio come dice lei. Il tempo è una freccia e non c’è modo di fermarla, abbiamo solo l’opportunità di scegliere se correre con lei, senza voltarci indietro, o se farci trascinare guardando al passato.”

A distanza di quattro anni dalla pubblicazione del loro album eponimo, anticipato dall’uscita dei singoli City Of Angels, Misery Remember Me e Faces, la band inglese Ladytron – in attività da più di vent’anni – apre il nuovo anno mandando alle stampe il suo settimo lavoro in studio intitolato Time’s Arrow, il primo su etichetta Cooking Vinyl.

Una distanza temporale che ha permesso al quartetto di Liverpool – Daniel Hunt, Reuben Wu, Helen Marnie, Mira Aroyo – di ricalibrare la propria ricetta elettronica sulle esperienze di questi ultimi anni, mostrando la fragile drammaticità che agita gli umori di una generazione digitalizzata, disillusa ed effimera (oltre a scrivere e produrre anche per altri artisti, quali Lush e Cristina Aguilera, e raggiungere un discreto successo su TikTok con Seventeen, brano risalente al 2002), quando cedendo al vizio impavido della fiducia, dell’ottimismo (“there’s a light I can see, there’s a light like a prayer”), quando ritraendosi tra le braccia del sentimentale amarcord, come retorica di consolazione e rassegnazione.

Se da un lato il presente somiglia sempre più a un Cristo con le mani inchiodate alla croce dei grandi del passato, dall’altro il futuro non è più la nave tutta d’oro che pregavamo ci portasse via da quella noia che invece è rimasta lì ad aspettarci. Alla fine (come è successo a Don Draper in Mad Men) ci siamo accorti che il futuro che sognavamo, una volta raggiunto, non era poi come ce l’aspettavamo. È per questo motivo che torniamo continuamente a desiderare ciò che avevamo prima, in un loop di eterna insoddisfazione.

 

Così, in una retrospettiva anni ’80 e ’90 alla quale sembra quasi impossibile sottrarsi oggigiorno, i Ladytron modellano e distillano la propria materia stilistica all’interno di stratificate melodie downtempo in salsa synth vintage, dove languori nostalgici dal sapore glucosico di Haribo alla liquirizia si sciolgono in tensioni new wave e shoegaze di espressione prettamente made in England: si va dalle trame cupe ed elettro-malinconiche che rimandano a Simple Minds e Depeche Mode all’elettricità agrodolce della formula slowcore, passando per vocalità soffuse, ovattate ed eteree che flirtano coi pruriti sognanti e sensuali di quella dream-wave targata Beach House.

La freccia del tempo, della nostalgia, scagliata dai Ladytron con Time’s Arrow – come fossero moderni cupidi armati di arco e di frecce – non risparmia nessuno, ed evidentemente per molti nasconde una ferita mai del tutto cicatrizzata; una frattura patologica che si è creata nei comportamenti dell’essere umano, nei suoi profondi mutamenti sociali, nella trama narrativa di un futuro sempre più nostalgico. Il tempo dunque scorre via e d’un tratto ci si ritrova come Beatrice Horseman: soli e in una casa di riposo, immaginando la vita che si aveva prima.

facebook/ladytron

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