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Kula Shaker: recensione di 1st Congregational Church of Eternal Love and Free Hugs

Kula Shaker: Crispian Mills è il pastore di questa nuova chiesa che - nel 2022 - mischia fede e misticismo, rock e psichedelia per tornare alle origini e alla semplicità (in tutti i sensi).

Kula Shaker

1st Congregational Church of Eternal Love and Free Hugs

(StrangeF.O.L.K LLP)

rock, psichedelia, indie

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I Kula Shaker sono stati (almeno qui in Italia) tra le band più sottovalutate emerse dal grande calderone del Brit pop, rimaste (loro malgrado) intrappolate in quello splendido brano che fu Tattva che ne decretò il successo. A onor del vero, K non fu il solo album degno di nota del quartetto inglese, che all’epoca seppe coniugare il rock con la psichedelia e una giusta dose di misticismo indiano. Dopo anni di silenzio, seguiti a K 2.0, che suonava tanto come una semplice parentesi per omaggiare il ventennale del primo disco, tornano con un lavoro che può sembrare un tantino pretenzioso, se pensiamo al titolo e alla durata.

1st Congregational Church of Eternal Love and Free Hugs è composto da 20 canzoni. In un’epoca di fruizione della musica mordi e fuggi, in cui alla pubblicazione di un intero cd si preferiscono una serie di singoli, un progetto del genere suona alquanto ambizioso. Invece, è l’ennesima riprova del fatto che la band di Crispian Mills resta fedele a se stessa. Non si vende alle logiche di mercato, ma si prende il suo tempo per portare avanti un discorso. Niente featuring accattivanti o cambi di rotta per restare al passo con in tempi, ma un ottimo indie rock venato di psichedelia, condito di sitar e hammond.

A dirla tutta, il disco non è poi così lungo come sembrerebbe. Sotto le mentite spoglie del concept album si snoda un fil rouge, quello dell’amore e della fratellanza, che trae origine da una fede che abbraccia più religioni senza per forza essere legata a nessuna di esse. Il tutto giocato tra pezzi in puro stile Kula Shaker, che come sempre risentono della tradizione inglese e della psichedelia degli anni ’70 (dal singolo Whatever it is (I’m against it) a Gingerbread man) a intermezzi parlati, in cui un Mills in versione pastore accoglie i fedeli di questa nuova congrega al riparo dalla tempesta che imperversa all’esterno, marcando con questo escamotage l’evolversi della narrazione (o della messa, se volete).

Non mancano i rimandi al passato, da 108 ways to leave your narcissist (dove il numero 108, costante di buddismo e induismo, riporta alla mente 108 battles (of the mind)) a 303 revisited (che si collega al brano di K in realtà solo per una sorta di nostalgia di fondo più che a livello strumentale), alla copertina, ancora una volta disseminata di simboli e significati nascosti, che da sola ingloba i concetti di fusione tra misticismo indiano e religione cattolica, lotta tra bene e male e la libertà contro l’oppressione che permeano l’intero album.

 

Passando per tracce dal caratteristico incedere folk (Farewell beautiful dreamer), altre intrise di misticismo (The once and future king) e persino un’epopea epica (After the fall, pt. 1 / pt. 2 & 3), l’ultimo intermezzo parlato (Closing words) suona come un messaggio di speranza nel quale il pastore Mills annuncia che la pioggia è finita e che finalmente si vede la luce (anche se in realtà la conclusione vera e propria è affidata all’ipotetica perpetua di turno che annuncia il grande ritorno del cinema parrocchiale, che suona come un bel gancio all’altra passione del cantante dei KS).

Ancora una volta i Kula Shaker sono riusciti a lanciare il loro messaggio di amore nel modo più spiritoso e convincente che potessero trovare. Un messaggio molto vero e tangibile, per loro sempre attenti a questo aspetto, che hanno saputo coniugare creando la loro personalissima chiesa che fa dei ‘free hugs’ la propria bandiera.

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Simona Fusetta
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